«La pace in Centrafrica è un sogno possibile». La «suora coraggio» sfida la guerra coi libri

«Togliamo dalle mani dei bambini i fucili e sostituiamoli con i libri». È il motto della “suora coraggio”, come hanno soprannominato suor Maria Elena Berini, religiosa della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret, 74 anni, originaria di Sondrio. Missionaria in Africa dal 1972, la religiosa è stata insignita del premio internazionale “donne di coraggio 2018” attribuito ogni anno dal Dipartimento di Stato Usa. E suor Maria Elena di coraggio ne ha parecchio. In Centrafrica da undici anni – dopo altri 35 anni trascorsi in Ciad –, la religiosa s’è trovata in prima linea nella guerra che dal 2012 dilania la nazione. «A Bocaranga, una cittadina del Nord di 15mila abitanti dove risiedo con altre cinque consorelle, a volte, i gruppi di ribelli e- scono dalla savana e attaccano i villaggi vicini», racconta. La missione ha subito due feroci assalti. Il primo nel febbraio 2017, il secondo nel settembre scorso. «Uno dei combattenti, d’un tratto, si fermò e mi disse: “Ti uccido”. Gli risposi: “Uccidimi, sono qui, non ho paura”. Si voltò e andò via sbattendo la porta. Non so come mi fosse venuta quella frase. Interiormente pregavo il Signore e Lui mi ha ispirato e continua a farlo nei momenti difficili, che purtroppo sono tanti ». Le bande armate controllano l’80 per cento del territorio. Il governo di Faustin-Archange Touadéra ha difficoltà ad imporre la propria autorità fuori dalla capitale, Bangui. «Si respira un clima di perenne insicurezza, di angoscia, di paura. Eppure, come comunità, non ci stanchiamo di testimoniare che è possibile vivere insieme». In un contesto dove la differenza etnica e religiosa è manipolata per fomentare conflitti che hanno per oggetto le enormi risorse della nazione, le missionarie di Bocaranga combattono la loro battaglia pacifica per la convivenza. A colpi di penna e quaderno. «La scuola è l’antidoto al fondamentalismo, alla paura dell’altro. L’educazione apre le menti alla conoscenza, alla cultura, al rispetto delle diversità, al dialogo », afferma suor Maria Elena che, insieme alle consorelle, gestisce un istituto per 1.300 bimbi e assicura una formazione completa, dall’asilo alle superiori. La frequentano alunni di ogni gruppo etnico e di differenti confessioni cristiane: i musulmani sono dovuti fuggire all’inizio del conflitto per i raid delle milizie anti-Balaka. «Vogliamo insegnare, nel quotidiano, che il diverso non è un nemico. Che la religione non divide, al contrario. È il mezzo per avvicinarsi a Dio insieme, ciascuno con le proprie convinzioni». Non è facile, data la martellante campagna d’odio promossa dalle bande armate.
«Questo Paese, però, non smette di sorprenderci. Il popolo centrafricano, nonostante il suo lungo Calvario, sa ricominciare sempre. È stupenda la capacità dei poveri di rinascere ». Proprio nel nome di questo “popolo martire”, suor Maria Elena ha accettato e ricevuto l’onorificenza statunitense lo scorso 23 marzo, dalle mani della first lady Melania Trump.
«Quando ho ricevuto la prima email, pensavo si trattasse di uno scherzo. Poi mi hanno chiamato per spiegarmi. Mi sono sentita indegna. Tante donne nel mondo mostrano il loro coraggio aiutando, combattendo per i diritti dei poveri, soffrendo e spesso donando la vita. Perché dovevano premiare proprio me? Ho voluto accogliere, dunque, questo riconoscimento in rappresentanza della congregazione a cui appartengo che mi ha permesso di vivere in pieno il nostro carisma: “Amare Cristo e i poveri in terra d’Africa”. E della gente del Centrafrica, autentica maestra di coraggio».

Articolo tratto da Avvenire 06/06/2018 di LUCIA CAPUZZI

Le tre “p” di papa Francesco

Da Francesco «tre p» per la vita consacrata Preghiera, povertà, pazienza le colonne su cui fondare la propria testimonianza
Tre ‘p’. Preghiera, povertà e pazienza. Sono queste le tre «colonne» della vita consacrata. Papa Francesco lo aveva già detto nel corso della sua visita a San Giovanni Rotondo. Ieri lo ha ribadito parlando, a braccio, ai partecipanti al Convegno internazionale promosso dalla Congregazione per i religiosi presieduta dal cardinale brasiliano João Braz de Aviz. Nel farlo il Pontefice ha raccomandato di evitare l’attaccamento ai soldi e tutte le ricchezze, di rifuggire «cordate» e «carrierismi».
Il vescovo di Roma ha innanzitutto ricordato che pregare è come «tornare sempre alla prima chiamata» riscoprendo la «radicalità» della scelta religiosa: «lascio tutto per Te». E «la preghiera –ha ribadito – è l’aria che ci fa respirare quella chiamata, rinnovare quella chiamata. Senza quest’aria non potremmo essere buoni consacrati». E quindi ha portato l’esempio di Madre Teresa che «era una macchina per cercarsi dei problemi» ma «le due ore di preghiera davanti al Santissimo, nessuno gliele toglieva».
Parlando della povertà il successore di Pietro ha detto a frati e suore che è un «muro» che difende. «Ti difende – ha spiegato – dallo spirito della mondanità, certamente. Noi sappiamo che il diavolo entra dalle tasche. Tutti noi lo sappiamo. E le piccole tentazioni contro la povertà sono ferite all’appartenenza al corpo della vita consacrata». «Ci sono tre scalini – ha quindi proseguito papa Francesco – per passare dalla consacrazione religiosa alla mondanità religiosa. Sì, anche religiosa; c’è una mondanità religiosa; tanti religiosi e consacrati sono mondani. Tre scalini. Primo: i soldi, cioè la mancanza di povertà. Secondo: la vanità, che va dall’estremo di farsi “pavone” a piccole cose di vanità. E terzo: la superbia, l’orgoglio. E da lì, tutti i vizi. Ma il primo scalino è l’attaccamento alle ricchezze, l’attaccamento ai soldi. Vigilando su quello, gli altri non vengono».
Infine il Pontefice ha parlato della pazienza, necessaria non solo «davanti alle sofferenze del mondo» ma anche «davanti ai problemi comuni della vita consacrata», tra cui quella della «scarsità delle vocazioni ». Di fronte a quest’ultimo problema a volte la risposta è quella di chiudere i noviziati e intraprendere il cammino dell’«ars bene moriendi». «Manca la pazienza e non vengono le vocazioni? Vendiamo e ci attacchiamo ai soldi per qualsiasi cosa possa succedere in futuro. Questo è un segnale – ha avvisato papa Francesco –, un segnale che si è vicini alla morte: quando una Congregazione incomincia ad attaccarsi ai soldi. Non ha la pazienza e cade nella seconda “p”, nella mancanza di povertà». Ma «questa “ars bene moriendi”, è l’eutanasia spirituale di un cuore consacrato che non ce la fa più, non ha il coraggio di seguire il Signore. E non chiama…».
Se non c’è «pazienza» ha poi detto il Pontefice «si capiscono questi carrierismi nei capitoli generali, questo fare le “cordate” prima… per fare due esempi». «Voi – ha aggiunto con un sorriso –non sapete la quantità di problemi, di guerre interne, di liti che arrivano da Monsignor Carballo! (l’arcivescovo segretario della Congregazione, ndr). Ma lui è della Galizia, lui è capace di sopportare questo!».

GIANNI CARDINALE Avvenire 05/05/2018 ROMA

La maledizione di un ricco sottosuolo. CONGO E SUD-SUDAN

PER RIFLETTERE NEL GIORNO DI PREGHIERA E DIGIUNO DI VENERDÌ 23 FEBBRAIO
INDETTA DA PAPA FRANCESCO PER LA PACE NEL CONGO E IN SUD-SUDAN

1. La repubblica democratica del Congo sta vivendo giorni molto difficili. Pur potendo contare su una grande ricchezza del suolo e del sottosuolo, si parla di ben 13 milioni di persone che rischiano di morire per fame.
Il Congo è di fronte ad una grave crisi politica, perché Kabila, il presidente che ha terminato il suo secondo mandato a dicembre del 2016, non intende lasciare il potere. Il fatto più grave è legato al fatto che ampie aree del paese sono interessate ad una guerra, che non sembra finire mai. Le zone più interessate sono quelle del Kivu, che è al Nord, vicino ai grandi laghi, e quelle del Kasai, al Sud. Sono più di cento i gruppi armati che si contendono il controllo del territorio e quindi delle risorse minerarie.
Per poter vivere la popolazione è costretta a lavorare nelle miniere illegali di “coltan”, oro, cobalto in condizioni disumane, sotto posta a soprusi e violenze continue. A chi giova questa situazione? All’industria armiera ed ai suoi mercanti, ma anche ai governi di Rwuanda e Uganda, che con la complicità del governo di Kinshasa e tramite l’impiego di milizie armate si assicurano parti consistenti della ricchezza prodotta.
Questo stato di perenne instabilità fa comodo alle imprese minerarie straniere attive in varie parti del paese con il benestare dei governi delle loro nazioni di provenienza. In assenza di controlli, le imprese dichiarano al fisco ciò che vogliono e se il governo vuole imporre un aumento di tasse minacciano rivolte e caos.
La situazione così com’è fa comodo anche a noi che possiamo acquistare cellulari e computer portatili a costi contenuti perché il “coltan” utilizzato dalle industrie, proviene in gran parte dalla regione del Kivu a prezzo di sfruttamento anche del lavoro minorile.

2. Il Sud-Sudan è uno Stato di recente creazione. Esso ottiene l’indipendenza il 9 luglio 2011. A differenza del Sudan, che è a stragrande maggioranza musulmana, quella del Sud-Sudan è invece cristiana. Ma questo non è stato una garanzia per costruire una convivenza pacifica tra le due grandi etnie, che fanno capo a due personaggi come Kiir e Machar, in lotta tra loro per conquistare il potere.
La maledizione di questo paese è legato al denaro proveniente dall’estrazione del petrolio e che uno dei due contendenti vuole accaparrare per sé e per i propri amici. Il paese, così, si ritrova in uno stato di guerra civile con grave disagio per la popolazione civile, che si ritrova continuamente a fare i conti con ogni sorta di violenza e di sopraffazione.

Ad opera della Fraternità carmelitana di Barcellona P. G. ME

Questa giornata indetta dal papa con la vita degli ultimi

Ciò che conquista gli animi nei discorsi di papa Francesco è il punto di vista: un inedito sguardo extra moenia o ‘fuori le mura’, che pensa la Chiesa a partire dal mondo, non viceversa. L’odierna giornata di preghiera e digiuno per la pace nella Repubblica Democratica del Congo e nel Sudan Meridionale, alla quale Francesco invita tutti, si inserisce in questo contesto e dovrebbe indurre chiunque a un serio discernimento su quanto sta avvenendo nei bassifondi della storia. In effetti, i due Paesi dell’Africa subsahariana per cui pregare e digiunare, duramente provati dalle violenze, costituiscono l’emblema di quelle che il pontefice, nel suo magistero, chiama «periferie del mondo». Ed è proprio la storia di quelle terre insanguinate, pur passando dai resoconti della memoria in mani sempre diverse, quante sono le generazioni, che dovrebbe aiutarci a comprendere quanto aberrante sia l’egoismo umano. Essa, infatti, continua a costituire la narrazione permanente, modulata con generi letterari diversi, di modelli di civilizzazione che in fondo hanno sempre generato, oltre alle guerre, esclusione a dismisura.
Il Congo di cui stiamo parlando, ex possedimento personale di re Leopoldo dei Belgi, è un Paese dove le ingiustizie e le sopraffazioni più terribili hanno rappresentato una costante fin dai tempi del colonialismo. E lo stesso ragionamento può essere riferito al Sud Sudan, la più giovane nazione africana, nata a seguito di una consultazione referendaria nel 2011. Ma anche in questo caso, sia prima dell’indipendenza che poi, a dettare le regole del gioco, sono stati i violenti. Pertanto, la licenza di uccidere, calpestando la dignità umana,va condannata e soprattutto scongiurata, promuovendo cammini di pace. Non basta, cioè, invocare la fine delle ostilità perpetrate dai signori della guerra.
Come diceva il compianto arcivescovo di Milano, cardinale Carlo Maria Martini, «la pace ha un costo, la pace si paga. Anche il Vangelo, quando dice ‘A chi vuole toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello’, fa capire che c’è un prezzo da pagare, che non basta invocare la pace». Bisogna essere disposti a sacrificare anche qualcosa di proprio, per questo grande bene; e non solo a livello personale, ma anche di gruppo, di popoli e nazioni. Andando, soprattutto, al di là di quel perbenismo endemico del nostro tempo, per cui le miserie del mondo sono da addebitare, paradossalmente, alle vittime stesse della miseria, sarebbe opportuno interrogarsi sulle cause, quasi mai mediatizzate, che generano morte e distruzione. Ecco che allora scopriremmo intrighi d’ogni genere legati al diktat dell’interesse, poco importa se di questa o quella oligarchia, di questa o quella multinazionale.
È evidente che una vasta umanità dolente, vittima di soprusi a non finire, patisce innanzitutto e soprattutto le conseguenze di legami interessati, maliziosi e artefatti che dipendono dall’ingordigia di chi guarda solo e unicamente alla massimizzazione dei propri profitti. Bisogna chiedersi, allora, pregando e digiunando – se il nostro presente e il nostro futuro non siano intrappolati nelle strutture di peccato, di cui lo sfruttamento e l’abbandono delle «periferie» sono il segno più evidente. L’impegno deve essere quello di un decentramento, guardando al mondo dalla parte degli ultimi. Non esserne capaci equivarrebbe al sonnambulismo di una fede disincarnata, oppiacea, relegata nelle sacrestie vetuste che sono l’antitesi della frontiera del Vangelo.
U n percorso di conversione, che la mistica quaresimale propone, nella consapevolezza che «essere morali – con le parole del grande sociologo Zygmunt Bauman – significa sapere che le cose possono essere buone o cattive. Ma non significa sapere, né tanto meno sapere per certo, quali siano buone e quali cattive. […] Essere morali significa non sentirsi mai abbastanza buoni…».
Il mistero della predilezione di Gesù per i poveri e la loro centralità nei dinamismi del Regno e della missione suggeriscono a ogni Chiesa, nel Nord come nel Sud del mondo, di condividere la vita dei poveri e questa giornata ce lo ricorda.

Avvenire, Editoriale di Giulio Albanese 23/02/2018

Prevalga la Speranza. Quattro verbi per un mondo umano

Accogliere, proteggere, promuovere, integrare. Sono i quattro verbi che papa Francesco ha suggerito per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2018, che cade oggi, 14 gennaio.
Quattro movimenti, che possono prendere vie molto diverse, e che proprio in questa creativa ricchezza possono aiutare a stabilizzare delle ‘forme’ che ci aiutino a vivere umanamente in un mondo che è plurale, che ci piaccia o no. Perché, come scriveva Hannah Arendt, «gli uomini, non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo». La pluralità non è la variazione dell’identico, come nei prodotti fatti in serie che si distinguono per qualche optional, o nel conformismo sociale di chi cerca l’originalità in qualche dettaglio. Pluralità è la convivialità delle differenze, radicata nella comune appartenenza alla famiglia umana, e nella comune eppure singolarissima capacità di azione libera: dare inizio a qualcosa che prima non c’era, mettere al mondo, moltiplicare l’energia della vita. Siamo fratelli non perché siamo uguali (tutti i fratelli sono tutti diversi in realtà, anche i gemelli), ma perché abbiamo lo stesso Padre, e perché attraverso di noi può continuare a germogliare la vita. Siamo fratelli nella capacità di generare l’inaudito, di far crescere la speranza, di far entrare luce nel mondo, di ‘amorizzarlo’, come invitavano a fare Pierre Teilhard De Chardin e, poi, Arturo Paoli.
Non c’è alternativa tra la vita e la morte, tra la generatività e la stagnazione. Ciò che non respira, che non si allarga, che non lascia entrare aria da fuori si spegne per asfissia. Se pensiamo di salvarci chiudendo porte e finestre, alzando muri («se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori», scriveva Italo Calvino) costruiamo da soli la nostra prigione e in fondo siamo come chi sega il ramo su cui è seduto. Perché la frase «chi vuol salvare la propria vita la perderà, e chi è disposto a perderla la salva» non è solo un simpatico paradosso dei tanti che costellano il Vangelo. È l’essenza stessa della vita piena. Il voler trattenere, la paura di perdere qualcosa, il concentrarsi su di sé e i propri costi/benefici, il rimpicciolire i nostri orizzonti sui vantaggi immediati e il chiudere i nostri spazi (che poi non sono nostri: soprattutto se ci diciamo credenti, la terra è un dono per tutta l’umanità da coltivare e custodire, non un possesso da difendere gli uni contro gli altri) ci svuota, ci sdilinquisce, ci disumanizza, ci uccide.
Non esiste via di mezzo tra il lasciar andare e il trattenere e solo il primo è movimento di vita. Ma occorre allenarci, aiutandoci a vicenda, perché pur essendo vitale non è un movimento che venga spontaneo.
Come scriveva Rainer Maria Rilke, «Dobbiamo, in amore, praticare solo questo: lasciarci andare l’un l’altro. Perché è trattenere che viene spontaneo».
I quattro verbi che il Papa ci suggerisce sono uno stimolo a esser generativi, prima ancora che a risolvere una questione sociale. Non è di politica che si sta parlando, ma di umanità e di vita; di senso di ciò che facciamo. Perché senza la domanda sul senso ci affidiamo inevitabilmente alle soluzioni tecnocratiche, diventandone ostaggio anziché timonieri.
Allora quattro movimenti, quattro direzioni, quattro processi per essere prima di tutto vivi noi, capaci di rispondere alle sfide con iniziativa e audacia. Quattro movimenti che declinano il ‘prendersi cura’, che è crescita nella reciprocità e non erogazione di prestazioni. Che rigenera, e non sottrae solo energie e risorse. Che mette a sua volta in moto processi nuovi: e il fatto che temiamo di non poterli controllare non li rende per questo cattivi, anzi. Possiamo forse controllare la vita dei figli che abbiamo messo al mondo? Sarebbe perverso il solo pensarlo. Sarà la via imprevedibile che prenderanno ad arricchire di novità le nostre vite, a estenderle dove mai saremmo arrivati da soli, coi nostri programmi. Ma forse questa metafora semplice è difficile da capire in una società dove non si fanno nascere più figli per paura di ciò che si perde. O dove non si aiutano le persone a essere in condizione di diventare genitori, perché le priorità sono sempre altre… Nessuna meraviglia che una società che non sa accogliere i bambini non sappia accogliere i migranti, perché ‘tutto è connesso’. Accogliere non è albergare. Non è trovare un posto da qualche parte, che crei il meno disturbo possibile e magari possa diventare un business. Accogliere è fare spazio nelle nostre vite, metterci in gioco, cambiare le nostre abitudini, lasciarci rinnovare. Entrare in relazione, perché ‘ospite’ è parola di reciprocità. È entrare in una avventura di vita, invece che cercare tristi vie di fuga alle nostre stanche routine con le pseudo-avventure online.
Proteggere non è solo dare un tetto, ma custodire, sentirsi responsabili. Non fare come Caino, non pensare che la questione non ci riguardi. Pensare in relazione anziché pensare individualmente: un movimento che può solo farci bene.
Promuovere, perché assistere non basta. Tante delle persone che arrivano hanno competenze, esperienze, speranze, energie che, valorizzate, possono far bene a tutti, far crescere una società che sta girando sempre più a vuoto. Promuovere loro è promuovere noi. E infine integrare, che non è né assimilare (ti tengo, se diventi come me) né tollerare (fai quel che ti pare, basta che non disturbi), modi entrambi indifferenti alla differenza e fallimentari, come la storia dimostra. Integrare è rendere parte attiva, corresponsabile. Che significa anche, appunto, ‘lasciar andare’, ‘autorizzare’ a scrivere con noi il futuro: non pretendere di dire a chi arriva dove deve andare (non lo sappiamo nemmeno per noi!), ma accettare di entrare insieme in un movimento vitale di cui non possiamo conoscere l’esito a priori ma che, se ci coinvolgiamo con responsabilità e onestà, porterà certo buoni frutti. Per una volta facciamo prevalere la speranza sulla paura, che è ciò che ci rende manipolabili e sterili. Ascoltiamo nel nostro cuore questo invito di papa Francesco, lasciamo che la mente trovi le forme, cominciamo a costruirle insieme e ciò che germoglierà sarà vita nuova.

Editoriale del quotidiano Avvenire del 14/01/2018 di Chiara Giaccardi