Il prete e la povertà

Articolo tratto da Settimana News di don Domenico Marrone

Il decreto conciliare Presbyterorum ordinis al n. 17 che si occupa della povertà volontaria e dell’atteggiamento verso i beni terreni, esorta così i presbiteri: “Non trattino l’ufficio ecclesiastico come occasione di guadagno, né impieghino il reddito che ne derivi per aumentare le sostanze della propria famiglia. I presbiteri, quindi, senza affezionarsi in modo alcuno alle ricchezze, debbono evitare sempre ogni bramosia e astenersi accuratamente da qualsiasi tipo di commercio”.
Questa esortazione rivolta ai presbiteri a non impiegare i redditi derivanti dal loro ufficio “per aumentare le sostanze della propria famiglia” fu ritenuta troppo netta da un padre conciliare. Egli chiedeva che fosse mitigata, poiché esiste anche il dovere di aiutare la propria famiglia quando è nel bisogno. Ma i redattori risposero: “Il testo si conserva perché i doveri verso la famiglia e gli altri sono compresi nell’onesto mantenimento e compimento dei doveri del proprio stato, di cui abbiamo parlato prima. Qui il discorso si svolge solo sui beni superflui”[1].
I preti – scrivono i padri conciliari – si accontentino del necessario e «il rimanente sarà bene destinarlo per il bene della Chiesa e per le opere di carità». Il Concilio ricorda a presbiteri e vescovi: «Vedano di eliminare nelle proprie cose ogni ombra di vanità. Sistemino la propria abitazione in modo tale che nessuno possa ritenerla inaccessibile, né debba, anche se di condizione molto umile, trovarsi a disagio in essa».

 

Il silenzio sulla povertà

Il prete diocesano, fin dal diaconato, assume l’impegno del celibato e, con l’ordinazione presbiterale, promette al vescovo della diocesi di appartenenza e ai suoi successori «filiale rispetto e obbedienza». Della povertà non si dice nulla.
Un padre conciliare chiese che venisse esplicitato nell’ultimo schema del decreto Presyterorum ordinis un suggerimento per la Commissione liturgica: di inserire nel rito di ordinazione al suddiaconato la promissio ritualis del celibato, nel diaconato quella della povertà e nel presbiterato quella dell’obbedienza. La Commissione rifiutò facendo leva sulla distinzione tra povertà dei presbiteri e povertà dei religiosi[2].
L’esigenza della povertà per i presbiteri, e non solo per i religiosi, non ha attratto particolare interesse dopo il Concilio Vaticano II[3]. L’attenzione alla povertà ritorna nel documento del 1988 della Conferenza Episcopale Italiana Sovvenire alle necessità della Chiesa.  Ai preti, in particolare, ricorda: «Occorre “lasciare tutto” davvero, comprese le ansietà sfiduciate e la ricerca di sicurezze per vie che non sono evangeliche» (n. 16).
Vent’anni dopo, un altro documento della Conferenza Episcopale Italiana Sostenere la Chiesa per servire tutti ripete ai preti: «La nostra disponibilità personale a una vita sobria e autenticamente evangelica rafforzerà la credibilità alla nostra opera educatrice». L’esigenza della povertà è stata però recuperata con forza da papa Francesco, nell’ambito di un’attenzione generale che egli riserva all’argomento.

 

Il prete e la comunità

Non possiamo ignorare l’esemplarità che il presbitero è chiamato a vivere con la sua povertà – personale ed ecclesiale – nei riguardi dei fedeli e della comunità che gli sono affidati. È un punto decisivo, sia per la spiritualità del presbitero, sia per la credibilità della sua azione pastorale.
L’esemplarità, infatti, nasce dalla natura stessa della figura del presbitero come padre ed educatore, come colui che comunica ai fedeli la bellezza e la serietà della povertà cristiana: non semplicemente con l’annuncio evangelico ma con la testimonianza di una vita veramente povera.
Per poter interpellare l’uomo d’oggi, la povertà evangelica deve essere eloquente, visibile, deve essere narrata. Se non è narrata non si pone neanche la domanda sul come può interpellare. E chi può narrarla se non la Chiesa?
A 60 anni dall’apertura del Concilio si devono ricordare le parole di papa Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962: “In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale essa è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Per il card. Lercaro, protagonista del Concilio, “il tema centrale del Concilio è la Chiesa proprio in quanto Chiesa dei poveri” e per il card. Liénart, “la Chiesa deve ritrovare un aspetto che i secoli hanno un poco sfumato: il volto della povertà”.
Nel Concilio si toccò il tema della povertà del presbitero, e resta memorabile l’intervento del cardinal Lercaro su Servizio presbiterale e povertà nel quale si diceva con forza che “la situazione dei poveri secondo il vangelo e la pratica cristiana della povertà non riguardano solo il comportamento morale del cristiano e della Chiesa, ma toccano il mistero intimo e personale del Cristo: cioè non costituiscono un aspetto, sia pure sublime, di morale e di filantropia, ma un momento essenziale della rivelazione di Cristo su sé stesso, una parte centrale della cristologia”.
Il nesso tra ministero e povertà è ben più radicale e trova la sua ragione nel legame tra povertà e sequela, tra povertà e fede. Il prete che, come credente, vive il suo ministero come “forma della sequela di Cristo” impara che solo come un povero può vivere il suo essere prete in quanto figura spirituale.

 

Precarietà antropologica

La povertà più evidente è certamente quella antropologica, quella precarietà, quella fragilità che ha l’apice nella mortalità inerente alla condizione umana. Nasciamo nella nudità, viviamo nella precarietà, moriamo nella solitudine. La morte, soprattutto, ci incute paura, rende la nostra condizione “alienata” (cf. Eb 2,15), e in questa fragilità soffriamo una mancanza.
L’uomo è radicalmente povero, sempre bisognoso innanzitutto dell’altro, degli altri, dell’Altro, costantemente tentato di fuggire questa povertà, di non vederla e di rimuoverla, elaborando strategie per sottrarsi a essa.
I filosofi non hanno mai smesso di meditare su questa condizione umana di povertà, vulnerabilità, fragilità, precarietà. Tutti gli uomini e le donne conoscono questa povertà umana, anche se la vivono in modi molto diversi, più o meno alienati dalla paura della morte, spinti all’idolatria, dove “l’idolo”, che “è un falso antropologico prima che teologico” (Adolphe Gesché), sembra liberare dalla povertà, dalla condizione di mancanza e di bisogno.
La povertà è un mistero antropologico. E’ il terreno meno esplorato, ed è proprio questa la causa per la quale il discorso sulla povertà di cui parla la fede appare estraneo e non si incontra con la povertà quale è sperimentata nelle condizioni umane più dolorose e ferite.
Il mistero antropologico della povertà riguarda non una particolare, per quanto vasta, categoria di esseri umani, ma tutti. Essa dà ragione della povertà come appartenente alla condizione umana comune, come un connotato fondamentale della stessa definizione dell’uomo.
Perciò non è una congiuntura, non è un accidente, non è una situazione transitoria o definitiva nella quale alcuni o molti esseri umani si trovano; è una condizione universale e permanente, che accomuna tutti gli uomini e le donne, e ne integra l’identità.
Questa povertà costitutiva dell’uomo non è una metafora, implica una debolezza e un’indigenza reale, significa che nessuno è sufficiente a se stesso e tutti hanno bisogno gli uni degli altri; comporta la finitudine, la morte e il limite e, in sostanza, coincide con la condizione di creatura.
Poveri sono dunque gli uomini tutti; ma beati sono solo quelli che lo riconoscono, solo quelli che non negano questa verità del loro essere, solo quelli che non cercano disperatamente e in modi vani — perseguendo ricchezza, autosufficienza e potere — di vivere come se non lo fossero; beati sono pertanto quelli che, a partire da questa riconosciuta condizione di povertà, e conformemente ad essa, stabiliscono il loro rapporto con Dio e con gli altri uomini.
In questo senso, la povertà non è la disgrazia di qualcuno, ma è la grazia di tutti; la disgrazia, la perdita della grazia, sta nel negarla invece di assumerla, sta nel volerne uscire da soli o nel pretendere di non appartenervi o di esserne usciti.

 

Cristologia e povertà del prete

Soffermarsi a considerare la povertà del presbitero significa partire dal fatto che la nostra vita di presbiteri è stata ed è segnata dallo sguardo d’amore di Gesù. E’ uno sguardo che ci ha resi liberi per seguire il Signore, imitando così i primi discepoli che «lasciarono tutto e lo seguirono» (Lc 5,11).
La povertà è un tema cristologico, cioè non è possibile dare un’identità a Gesù di Nazaret senza la povertà. Una vita connotata da precarietà, relativa insicurezza materiale, incertezza del futuro per vivere l’abbandono fiducioso a Dio suo Padre. La sua povertà diventa l’alveo della sua libertà!
La povertà del presbitero non è pertanto semplicemente volta a rendere il presbitero più disponibile verso i poveri e i deboli, ma ha a che fare con la sua qualità umana, con la strutturazione della sua umanità, con l’edificazione della sua persona in relazione a Cristo.
E ovviamente, in relazione alle persone della sua comunità e a chiunque egli incontri. Insomma, sul problema della povertà si gioca la qualità dell’umanità e della fede del presbitero. Anche per un prete non è affatto facile essere povero. Occorre scegliere di essere povero.
Il presbitero segue Gesù, il buon Pastore, colui che «dà la vita per le pecore» (Giovanni 10,14). A questo, dunque, sono chiamati: a fare della loro vita un dono, con un atto di libertà che non calcola ciò che lascia, ma si stupisce per essere stato chiamato a tanto. In realtà, solo con il coraggio che nasce da una grande libertà interiore possiamo seguire il Signore e relativizzare tutto a Cristo, disponendoci anche ad essere poveri come lui volle esserlo (cf. Fil 4,12-13).
Così manifestano chiaramente che solo in Cristo ripongono tutta la loro fiducia e speranza, solo per lui spendono la loro vita. Non riconoscono altro signore all’infuori di lui. Non vivono l’affanno della ricerca di altre e diverse garanzie, perché solo la comunione con lui è la loro vera e sovrabbondante sicurezza. E così, come discepoli liberi e poveri, potranno aprirsi e coinvolgersi pienamente ad accogliere la missione di annunciare il Vangelo.
San Carlo Borromeo nelle Monitiones del quarto Sinodo provinciale del 1576, esorta i presbiteri a vivere la povertà soprattutto nel modo concreto di esercitare il loro ministero verso i fedeli: «Non siete mercanti del mondo, non ministri di mammona, ma trafficanti di Cristo».
E subito precisa l’attenzione dei presbiteri circa l’uso dei beni ecclesiastici, dicendo: «distribuite i beni della Chiesa a coloro che sono le “viscere d’amore di Cristo”, e cioè ai poveri, ai pellegrini, alle vedove, ai fanciulli, ai sofferenti, ai carcerati». E aggiunge ancora di saper sacrificare sé stessi pur di provvedere al loro servizio ecclesiale: «frodando voi stessi del vitto, possiate ornare le vostre chiese e gli altari, rendere sempre ordinati i diversi luoghi bellamente ornati, procuratevi sacre suppellettili».
Secondo santa Caterina da Siena i presbiteri “devono essere generosi, non avari e mai vendere la grazia dello Spirito per ambizione e brama di guadagno (cf. Dialogo, cxiv, 405). Se il clero è abitato dal fuoco del desiderio di Dio, la presenza nella storia diventa feconda della fecondità stessa di Dio.

 

Il denaro e le cose

Esiste una plurisecolare tradizione spirituale che raccomanda al presbitero la povertà e l’essenzialità di vita, ma ben pochi si preoccupano di indagarne concretamente il rapporto con il denaro e con i beni personali e parrocchiali. Tutti sono concordi sulla testimonianza cristiana che i presbiteri devono necessariamente fornire, ma raramente ci si chiede quali siano le ricadute di questa missione sulle abitudini quotidiane.
Il presbitero, in particolare, deve misurarsi su almeno tre fronti: l’uso dei suoi soldi personali, dei soldi della comunità parrocchiale, dei soldi erogati dallo Stato e dalla Chiesa.
Noi presbiteri siamo uomini ricchi! Ricchi di una formazione e di un’istruzione che supera quella della gente comune; maneggiamo denaro e magari molto denaro e abbiamo una vita abbastanza sicura, più sicura di un operaio che rischia (oggi più frequentemente che nel passato) il licenziamento e la conseguente perdita delle assicurazioni sociali; abbiamo alle spalle una famiglia ecclesiale, il presbiterio, con un’assicurazione sociale che ci garantisce in caso di malattia e di vecchiaia.
In questa prospettiva deve diventare più abituale il confronto con le condizioni di vita della gente, confronto che, a volte, è per noi presbiteri motivo di un qualche imbarazzo. Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ci siamo sentiti affascinati dalla chiamata del Signore al radicalismo evangelico. Con una differenza: a noi preti i beni materiali (a volte anche quelli superflui) non mancano, mentre alla gente spesso manca il necessario.
Noi abitiamo in case che dicono la premura del popolo di Dio per assicurare un’abitazione dignitosa ai suoi preti, mentre tanta gente non riesce a trovare casa. Il nostro ministero ci garantisce di avere sempre un’occupazione e di ricevere il necessario per un dignitoso sostentamento; molti, invece, vivono di lavori precari e di retribuzioni inadeguate.
Tutto quello che dà sicurezza alla sua vita, il prete lo deve considerare come la condizione per potersi dedicare completamente alla sua missione, per poter spendere il suo tempo e le sue doti personali, oltre che la sua formazione, per il bene delle persone affidate alla sua cura pastorale e anche di tutti quelli che incontra sul suo cammino.
L’avidità, l’avarizia, la brama di possedere e di accumulare beni e denaro può insinuarsi nella vita di un presbitero: e, più l’età avanza, più la tentazione può farsi strada. La paura del futuro, il timore derivante dal pensiero della vecchiaia, dell’incertezza di ciò che il domani può riservare, di eventuali malattie e ricoveri, l’angoscia di dover dipendere da altri, può ingenerare una brama di accumulo che va oltre la buona previdenza, e diventa una maniera di scongiurare il futuro e la morte.
«Nel rapporto con l’avere (il presbitero) rivela il suo modo di porsi davanti a sé stesso e al proprio futuro, davanti agli altri e davanti a Dio: passa da questo snodo, dunque, una dimensione fondamentale della testimonianza presbiterale, che – se trascurata o vissuta male – è motivo di perdita di autorevolezza, quando non di scandalo. Una concezione consumistica della vita rimane incompatibile con un’autentica sequela del Signore; tra l’altro, contribuisce a trasformare il presbitero in un impiegato, la cui giornata viene scandita da priorità, da orari e programmi che non incontrano i reali bisogni della gente»[4]
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Sobrietà

Il prete povero che vive distaccato dalla seduzione delle cose, del potere e del denaro, sobrio e distaccato dai beni materiali, pronto a condividere con gli altri quello che possiede, sarà l’ispiratore di una pastorale nuova aperta a tutti, segnata dalla misericordia, che fa giungere il Vangelo a tutti, poveri o ricchi che siano.
Ai seminaristi del Pontificio seminario pugliese (10.12.2016) papa Francesco disse: «Se hai paura della povertà la tua vocazione è in pericolo! Perché la povertà nella vita del prete è madre che dà vita e fa crescere la donazione al Signore; ed è muro che custodisce».
La povertà è come un grembo materno che fa nascere e crescere la vita del presbitero nel fervore della donazione al Signore, essa diventa un forte stimolo per una vita pastorale impegnata; una vita aperta a tutti, intraprendente e coraggiosa, libera dalla tentazione della mondanità spirituale che attecchisce proprio in questa tendenza alla comodità, al benessere e all’autoreferenzialità (cf. EG 93-96).
Un altro vantaggio della povertà consiste nella libertà personale che, a sua volta, è fonte di affidabilità, disponibilità e mobilità apostolica. Scrivono ancora i vescovi: «la leggerezza del bagaglio del presbitero è condizione di scioltezza interiore e strumento di libertà apostolica, rende guide affidabili agli occhi del popolo di Dio e interlocutori credibili anche per i lontani. Non da ultimo, assunta come stile disinteressato e con slancio missionario, la povertà evangelica rende maggiormente disponibile il presbitero a essere inviato là dove la sua opera è dal vescovo ritenuta più opportuna»[5].
Inoltre, la povertà vissuta è spesso stimolo alla ricerca della fraternità, disponibilità a entrare nelle dinamiche della fraternità e in altre forme di vita comune che, oggi soprattutto, mentre nascono necessariamente delle forme di unificazione, di integrazione e di collaborazione tra le parrocchie, stanno diventando più necessarie che in passato: «Uno stile di vita sobrio facilita anche forme di vita comune con altri preti: dalla valorizzazione di luoghi in cui insieme fruire di servizio essenziali – quali il pasto o la lavanderia – alla condivisione di esperienze e responsabilità pastorali»[6].
Ma una simile condivisione non sarà facile, se non crescerà lo spirito della povertà evangelica con il distacco dalle proprie vedute e con la capacità di dialogare con gli altri presbiteri e con i laici, e se questo spirito di partecipazione e condivisione non penetrerà nelle comunità cristiane chiamate a integrarsi in unità pastorali. Certo, sarà difficile che tutto questo nasca e cresca, se non lo sente e non lo vive con convinzione e senso ecclesiale il prete.
Un prete che sceglie la povertà è una profezia vivente di voler vivere appoggiandosi non sui poteri di questo mondo, ma alla forza della parola e alla grazia del Signore; perché la povertà è una scelta di fede, anzi è la misura della fede del prete, del suo abbandonarsi fiducioso nelle mani del suo Signore, essa fa vivere una vita gioiosa, perché non lascia spazio all’invidia, alla rabbia contro coloro che non sono poveri.
La sobrietà, pur sempre nell’ambito dei beni materiali, ha tante forme per attuarsi: in rapporto al cibo, al tempo libero, allo svago, all’abitazione, agli abiti, agli strumenti tecnologici ecc.
Al riguardo, mi pare assai interessante un brano della Lettera Pastorale dell’allora arcivescovo di Milano, card. Giovanni Battista Montini, Il cristiano e il benessere temporale (24 febbraio 1963). Egli inizia affermando la sua “competenza” e il suo “dovere” di “raccomandare la sobrietà nell’uso delle risorse economiche che la Provvidenza mette a nostra disposizione”.
E subito richiama il grande principio etico: “Non bisogna mai dimenticare il fine, a cui i beni temporali devono servire, e cioè alla vita onesta dell’uomo, non al suo orgoglio, o alla sua vanità o alla sua avarizia, non ai suoi piaceri fatui o viziosi”. E, insieme, l’arcivescovo insiste sul loro “valore umano”: non bisogna mai “dimenticare il valore umano – di studio, di lavoro, di sofferenza, di bisogno altrui – contenuto nel denaro o nei beni disponibili, per saperli trattare con misura e quasi con riverenza e riconoscenza”.
Passa poi a segnalare alcuni significati della sobrietà nell’uso dei beni: “La semplicità, la parsimonia, la liberalità nell’uso dei beni temporali sono indici della superiorità dello spirito che viene a contatto con essi e dimostrano perciò la sua nobiltà o il suo buongusto”.
Tutto questo riveste particolare valore in rapporto ai presbiteri: “Questa raccomandazione alla semplicità e alla austerità della vita e al distacco dal denaro, dagli agi superflui e da ogni vanitosa esteriorità noi vogliamo fare in modo particolare a noi stessi ecclesiastici: vi siamo più degli altri obbligati per i più stretti vincoli che a Cristo ci uniscono, per l’esempio che ogni altro si attende da noi, per l’efficacia che la nostra linea di povertà conferisce al nostro ministero, e per la sterilità che invece lo colpisce quando appare rivestito da qualche vanità o governato da qualche venalità”.
E, considerando i beni non materiali, ma non per questo non meno importanti, vorrei ricordare la sobrietà nelle parole – da misurare e da rendere significative affinché nascano dal silenzio e dalla riflessione -; nell’esibizione di sé, laddove si tende a voler comparire ad ogni costo (si pensi all’ossessione di visibilità sui social) e a pretendere di avere sempre un posto; nell’esercizio del potere, quando lo si accentra eccessivamente, senza condividerlo nelle dovute e opportune modalità. C’è anche una doverosa sobrietà pastorale per evitare il moltiplicarsi di strumenti, edifici, organismi, riunioni, programmazioni…
La nostra dovrà essere parola profetica anche nel nostro tempo, teatro di tante ingiustizie e di una insopportabile, scandalosa disparità di condizioni. Ma la nostra parola suonerà vuota, incoerente e controproducente, se le nostre condizioni di vita strideranno con quel messaggio evangelico che siamo chiamati ad annunciare e a testimoniare (cf. Pastores dabo vobis, 30).

 

Potere e affermazione di sé

Tentazione contro la povertà è quella che emerge già nel cap. 23 di Matteo, dove Gesù denuncia il clericalismo ante-litteram di coloro che amano i primi posti e i titoli onorifici. Nella Chiesa indubbiamente logiche di potere e di affermazione di sé, di concorrenzialità e carrierismo, non sono mai venute meno.
Insegne e vesti liturgiche, suppellettili liturgiche e arredi sacri, titoli ecclesiastici e simboli della dignità ecclesiastica stanno ritrovando una spiacevolissima ripresa e godono di un rinnovato e assai dubbio favore. Calzature e abiti, pizzi e merletti, mitre e pastorali preziosi e perfino lussuosi, sono di nuovo in voga con il pretesto che così si onora il Cristo.
Ma, per quanto il calix debba essere praeclarus, non si può dimenticare che il Cristo non smette di essere povero quando è celebrato liturgicamente. Ambrogio, il Crisostomo, Gerolamo e altri hanno parole di fuoco contro chi usa suppellettili preziose quando ci sono dei poveri che muoiono di fame e di freddo. Ambrogio esorta: “Non esitare a vendere i vasi sacri per soccorrere i miseri”.
È altresì fondamentale, per testimoniare la povertà, scindere in modo assoluto l’amministrazione dei sacramenti e le celebrazioni liturgiche, che tutte annunciano la gratuità di Dio in Gesù Cristo, dalla richiesta di pagamento; è condizione essenziale per la verità di ciò che si celebra e per la credibilità stessa del celebrante. Lì emerge come la gratuità del ministero (“gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”: Mt 10,8) non sia fatto semplicemente personale, ma ecclesiale.
Nella sessione del Concilio di Trento (traslato a Bologna) del 1547 circa la riforma dei sacramenti, si discusse sulla liceità o meno del petere (chiedere) e dell’accipere (ricevere): si poteva chiedere o anche solo ricevere qualche cosa in occasione dell’amministrazione dei sacramenti?
Se nessuno sosteneva la liceità del petere, le discussioni sull’accipere furono sottili, ma va ricordata la posizione di Seripando che voleva tagliare alla radice il problema definendo “eretico e sacrilego” ogni tintinnio di monete intorno all’altare e va ricordata l’espressione intrisa di zelo evangelico che affermava che ormai “non possiamo più dire allo storpio: alzati, perché siamo pieni di oro e di argento”.
Gli atteggiamenti esteriori influenzano profondamente l’abito mentale, il cuore. Scrive p. Congar: “Si può beneficiare ordinariamente di privilegi senza arrivare a pensare che siano dovuti, vivere in un certo lusso esteriore senza contrarre certe abitudini, essere onorati, adulati, trattati in forme solenni e prestigiose, senza mettersi moralmente su di un piedistallo? È possibile sempre comandare e giudicare, ricevere uomini in atteggiamento di richiesta, pronti a complimentarci, senza prendere l’abitudine di non più veramente ascoltare? Si può, infine, trovare davanti a sé dei turiferari senza prendere un po’ il gusto dell’incenso?”.
Sappiamo dalla storia come la seconda fase dell’inculturazione del cristianesimo sia avvenuta a partire dal 313 d.C., quando è divenuta religione dell’Impero. Ed è proprio la liturgia a mostrare i segni di questo processo d’inculturazione, assimilando i segni del potere regale e temporale sia nei modi che negli abiti e negli oggetti liturgici. Gli abiti liturgici vengono mutuato dall’Impero.
Anche i titoli ecclesiastici sono ripresi dalle usanze imperiali romane e dal potere mondano. Sappiamo che il titolo di “Eccellenza” per il vescovo risale all’epoca fascista per non attribuirgli un onore inferiore a quello accordato da Mussolini ai suoi prefetti.
Già nel Concilio Vaticano II si era discusso su questi problemi. Vari vescovi, tra i quali Lercaro (allora vescovo di Bologna) e Herder Camara (presidente della Conferenza episcopale brasiliana e vescovo di Olinda e Recife), avevano cercato di proporre una riforma che abbandonasse in modo definitivo tutto ciò che allontana dal Vangelo e contraddice il suo annuncio[7]. Ritengo che una riforma efficace nella Chiesa debba passare per l’abolizione dei titoli e la sobrietà delle vesti.
La povertà della Chiesa non la si valuta semplicemente in termini economici o di possedimenti di beni, ma anzitutto in termini di potere. Noi sappiamo che, nei secoli XII-XIV, il vocabolo pauper (povero) non si opponeva a dives (ricco), ma a potens (potente). Cioè, la ricchezza è un aspetto del potere. La povertà si configura così come rinuncia al potere e libertà dal potere. La povertà custodisce la libertà.
“Povertà è anche il franco e schietto riconoscimento delle diversità, delle pluralità di pareri, a volte anche della formazione di maggioranze e di minoranze. Se non si accetta la povertà, non si accetta la pluralità, e tanto meno il dissenso”[8].

 

Gestione dei beni

C’è ancora un altro aspetto della povertà di noi presbiteri che non possiamo tralasciare: è quello che riguarda la nostra responsabilità nel gestire i beni materiali che sono della Chiesa e che la Chiesa ci affida. E’ una responsabilità da condividere in spirito di comunione ecclesiale con altri, anzitutto con fedeli laici competenti e preparati, in particolare con i membri dei vari consigli per gli affari economici.
In concreto, occorre praticare esemplarmente la giustizia nella gestione dei beni della Chiesa, trattandoli non come patrimonio personale, ma come beni, appunto, della Chiesa, dei quali dobbiamo rendere conto a Dio e ai fratelli, soprattutto ai poveri (cf. Pastores dabo vobis, 30). Così come occorre garantire la trasparenza nella loro gestione. Di qui l’adeguata informazione da dare ai fedeli, il rendere conto coscienzioso e onesto agli organismi competenti, l’attenzione alle esigenze della carità.
Come amministratori dei beni ecclesiastici, sia noi che i nostri collaboratori laici, siamo chiamati a destinarli esclusivamente ai fini che sono loro propri, indicati dal Concilio in questi tre: «l’organizzazione del culto divino, il dignitoso mantenimento del clero, il sostenimento delle opere di apostolato e di carità, specialmente in favore dei poveri» (Presbyterorum ordinis, 17).
Solo così l’uso dei beni della Chiesa, specie nell’esigenza di una doverosa sobrietà, potrà garantire la credibilità e l’efficacia della nostra missione evangelizzatrice, come diceva Paolo VI: «L’indigenza della Chiesa, con la decorosa semplicità delle sue forme è un attestato di fedeltà evangelica, è la condizione, talvolta indispensabile, per dare credito alla propria missione, è un esercizio talvolta sovrumano di quella libertà di spirito, rispetto ai vincoli della ricchezza, che accresce la forza della missione dell’apostolato» (24 agosto 1968).
La trasparenza dei conti, la pubblicità dei bilanci in una parrocchia, la correttezza amministrativa, la regolarità fiscale, la destinazione di una somma per poveri o chiese povere, sono alcuni elementi che concorrono a quella trasparenza che lascia al presbitero la limpidezza di coscienza e impedisce la diffidenza o le accuse, ben sapendo che sul tema del rapporto con il denaro la Chiesa gioca molta della sua credibilità presso le persone.
Non dimentichiamo, inoltre, che siamo in un sistema di delega allo Stato del mantenimento della Chiesa (8 per mille): assumere direttamente la consapevolezza che è il “noi” ecclesiale soggetto e responsabile della Chiesa, non potrebbe che fare del bene.
È auspicabile che la condivisione dei beni divenga «forma abituale nella comunità cristiana. Le parrocchie ricche aiutino quelle povere e in difficoltà. In ogni diocesi ci sono parrocchie in equilibrio, altre che godono di una certa abbondanza di risorse; altre invece in difficoltà anche gravi, come quelle che si trovano in contesti poveri. È necessario pensare a forme e strumenti di condivisione tra parrocchie (e altri enti)» secondo la logica della perequazione dei beni. È necessario educare l’intera comunità a un «sentire condiviso» in materia di beni economici.
Non dimentichiamo il monito del vescovo servo di Dio don Tonino Bello: “Non è vero che si nasce poveri. Si può nascere poeti, ma non poveri. Poveri si diventa. Come si diventa avvocati, tecnici, preti. Dopo una trafila di studi, cioè. Dopo lunghe fatiche ed estenuanti esercizi. Quella della povertà, insomma, è una carriera. E per giunta tra le più complesse. Suppone un noviziato severo. Richiede un tirocinio difficile” (da “Luce e Vita”, 17 maggio 1992).
Mi piace concludere queste mie considerazioni riportando la conclusione formulata nei termini di una preghiera rivolta al santo di Assisi dall’arcivescovo Montini (san Paolo VI) al pellegrinaggio lombardo alla tomba di san Francesco:
“Ecco, allora, Francesco, che la tua Povertà ci diventa amica e maestra. Ecco che ammonisce coloro che mettono nei beni economici le loro somme speranze a mirare più in alto, a svincolare il cuore dall’amore delle cose terrene, e a saperle considerare come buone, solo quando ci sono scala per salire le vie dello spirito e ci sono specchio per riflettere la bellezza, la bontà, la provvidenza di Dio; come tu, Povero, le hai viste, alla fine, cantandole, come libero poeta, nel tuo cantico delle creature. Così insegnaci, così aiutaci, Francesco, ad essere poveri, cioè liberi, staccati e signori, nella ricerca e nell’uso di queste cose terrene, pesanti e fugaci, perché restiamo uomini, restiamo fratelli, restiamo cristiani…” (4 ottobre 1958).
Insieme, laici e presbiteri, impariamo che la terra non è nostra ma di tutti. Abbiamo abusato del creato perché diventasse denaro e merce. Se la vita religiosa fosse essenziale nei rapporti e sobria nelle scelte, dalla parte di coloro che ancora vogliono prendersi cura di un pezzo di terra, sarebbe possibile per i consacrati (presbiteri e religiosi) proporre uno stile esistenziale alternativo: la missione è questa, testimoniare concretamente l’intensità del rapporto con Dio.
Non bisogna essere tutti francescani per capire che, in questo momento storico, dobbiamo cambiare la relazione con le cose e la natura, renderla più gentile, meno prepotente e invadente. Questa è l’umiltà di stare nella storia: imparare a muoverci in questo deserto abitato con normalità, gioia e disponibilità. Perché la vita si salva se siamo davvero sobri e solidali.


[1] Cf. E. Castellucci, Presbyterorum ordinis. Introduzione e commento, in S. Noceti – R. Repole (a cura), Commentario ai documenti del Vaticano II 4. Christus Domini, Optatam totius, Presbyterorum ordinis, Dehoniane, Bologna, 2017, p. 459.

[2] Ivi, p. 460.

[3] Cf. A. Zambon, Il consiglio evangelico della povertà nel ministero e nella vita del presbitero diocesano, PUG, Roma 2022.

[4] CONSIGLIO PERMANENTE DELLA CEI, Lievito di Fraternità. Sussidio sul rinnovamento del clero a partire dalla formazione permanente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2017, p. 40.

[5] CONSIGLIO PERMANENTE DELLA CEI, Lievito di Fraternità. Sussidio sul rinnovamento del clero a partire dalla formazione permanente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2017, p. 17.

[6] Ivi, p. 18.

[7] Cf. X. Pikaza – J. Antunes da Silva (a cura), Il patto delle catacombe. La missione dei poveri nella Chiesa, EMI, Bologna 2015.

[8] G. Campanini, Povertà della Chiesa, povertà nella Chiesa, in VC, 2/2011, p. 101.

 

 

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