Domenica delle Palme

Con la celebrazione delle Palme si apre la grande e santa settimana della passione, morte e risurrezione del Signore. La settimana santa non è semplicemente un momento importante dell’anno liturgico, è la sorgente di tutte le altre celebrazioni dell’anno. Tutte, infatti, si riferiscono al mistero della Pasqua da cui scaturisce la salvezza nostra e del mondo. Durante tutta la Quaresima abbiamo compiuto uno spirituale pellegrinaggio, che ci ha portato fino a questa domenica delle Palme. La nostra meta era Gerusalemme, e così la liturgia della Chiesa ci ha accompagnato perché fossimo pronti ad accogliere il mistero della morte e risurrezione di Gesù, che celebriamo nel Triduo Santo. Nei giorni prossimi siamo chiamati a intensificare la presenza della Parola di Dio in mezzo a noi. Vogliamo infatti seguire Gesù da vicino. Non si stacchino i nostri occhi da lui perché dai suoi gesti apprendiamo il suo grande amore per tutti. Sì, dobbiamo tener fissi i nostri occhi sul volto di Gesù che accetta anche la morte, pur di salvarci. Gli occhi del Signore, affranti dal dolo-re ma sempre pieni di misericordia e di affetto, ci guarderanno come guardarono Pietro che pure lo aveva negato; e sentiremo nel profondo del nostro cuore un nodo di dolore e insieme di tenerezza. Possa ognuno di noi, in questi giorni, accogliere il dono delle lacrime come l’ebbe il primo degli apostoli quella notte nel Getsemani perché, assieme a lui, anche noi ci accostiamo nuovamente al Signore e iniziamo a seguirlo con un cuore nuovo.
Questi santi giorni si aprono con la memoria dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme. L’ultima tappa sono Betfage e Betania, paesi sul monte degli Ulivi, menzionati nel Vangelo di Marco (11, 1). Gesù manda avanti due discepoli perché procurino per lui una cavalcatura. Vuole entrare in Gerusalemme come mai aveva fatto prima. Fino a quel momento, infatti, tutte le volte che era venuto a Gerusalemme, si era tenuto nella discrezione di una predicazione non sempre riuscita: «Gerusalemme, Gerusalemme… quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!» (Mt 23, 37). Ora, invece, entra nella città santa e nel Tempio per l’ultima volta e vuole rivelare con chiarezza la sua missione di vero e nuovo pastore d’Israele, anche se pesavano su di lui minacce di morte da parte delle autorità del popolo. Era dunque il momento decisivo per la sua missione e per la sua stessa vita. Era la sua ora; quell’ora per la quale era venuto in mezzo agli uomini.
Gesù non entra, però, a Gerusalemme su un carro a cavalli come farebbe il capo di un potente esercito, ma su un asino come un re di pace. Scrive il profeta Zaccaria: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (9, 9). Gesù entra nella città santa come re, ossia come il salvatore che Dio ha inviato per la liberazione del suo popolo. E la gente sembra intuirlo. Infatti, gli corrono incontro perché il suo ingresso sia una festa regale: tutti si mettono a stendere i mantelli lungo la strada ove lui passa e con le mani agitano verdi rami di ulivo cantando: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore». È il canto di gioia che esprimiamo anche noi in ogni santa liturgia, dopo il prefazio, assieme agli angeli mentre entriamo nella memoria della cena del Signore. E la gioia che avvolge i discepoli e la folla ogni volta che il Signore si fa presente in mezzo a noi. E la stessa gioia che ebbe quella donna di Betania, Maria, mentre era prostrata ai piedi di Gesù. E una gioia eccessiva? Qualcuno forse potrebbe pensarlo. I farisei sono indispettiti della festa che si crea attorno a Gesù. Sono loro, infatti, che chiedono a Gesù di far tacere i discepoli. Ma Gesù benedice la gioia di coloro che lo accolgono a Gerusalemme: «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre». Pure le pietre avrebbero voce per cantare la gloria del re che viene nel nome di Dio.
Gesù entra nelle città di questo nostro mondo mentre la vita degli uomini è tragica-mente segnata da conflitti e da violenze di ogni genere. È un inizio di millennio davvero buio: le ombre tragiche della guerra sembrano estendersi invece che diminuire, come del resto la violenza diffusa nella vita quotidiana. Abbiamo bisogno di un liberatore. Gesù è il solo che può liberare gli uomini dalla guerra, dalla violenza, dall’ingiustizia, dalla schiavitù; è l’unico che può far allontanare gli uomini dell’amore solo per se stessi e renderli operatori di una vita più umana e più solidale. Può farlo perché lo mostra anzitutto con la sua stessa vita, con il suo modo di vivere e di camminare tra gli uomini. Il suo volto non è quello di un potente o di un forte, bensì di un mite e umile di cuore. Gesù non è venuto per salvare se stesso, ma per salvare gli uomini. Non è venuto a distruggere ma a salvare. Non è venuto a condannare ma a redimere. E di questo ha fatto lo scopo unico della sua vita.
Passano pochi giorni da quell’ingresso trionfale in Gerusalemme e subito Gesù diviene il crocifisso, il vinto. Egli, che aveva fatto bene ogni cosa, viene portato fuori dalla città e ucciso. Ormai sembra tutto finito per lui: non può più né parlare né guarire. Quella morte agli occhi dei più sembrò una sconfitta. In realtà era una vittoria: era la logica conclusione di una vita spesa per il Padre, per il Vangelo, per i discepoli, per i poveri. Davvero solo Dio poteva vivere e morire in quel modo, ossia dimenticando se stesso per donarsi totalmente agli altri. E se ne accorse un militare pagano. L’evangelista Marco scrive: «Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15, 39). E Dio, Padre buono, risuscitò il suo Figlio. Non permise alla morte di vincere il Suo amore. La vittoria dell’amore di Dio sulla morte continua a guidare ancora oggi quel piccolo corteo di discepoli che si raccolgono sotto le tante croci di oggi e avvolgono i corpi crocifissi con il lenzuolo della misericordia e dell’amore. Il male e la morte non sono l’ultima parola. I discepoli di Gesù continuano ad amare i poveri, i vinti, i malati, i sof¬ferenti, gli anziani, quelli che non hanno nulla da dare in cambio, perché l’amore vince il male e la morte. Questa santa liturgia che ci introduce nei giorni santi ci aiuti a comprendere che il male non ha l’ultima parola sulla nostra vita e su quella del mondo: la nostra salvezza sta nel restare accanto a Gesù che dona la sua vita per tutti e per tutte. A ognuno di noi la scelta di non abbandonare quel crocifisso, di non tradirlo per paura o per interesse, perché la possiamo trovarci tra coloro che gusteranno la gioia della vita senza fine.

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