Gli ebrei, Auschwitz e le insidie della memoria

Luoghi della memoria, giornate della memoria, memoriali… Il termine “memoria” è uno di quelli che più sono presenti della nostra vita e nella nostra cultura. La società di oggi ha fatto della memoria un culto.
E ricordare è necessario, su questo non ci sono dubbi, anche se poi la volontà della memoria lascia irrisolte molte questioni, prima di tutto quella dell’oblio: ché il ricordo non elimina l’oblio, anzi in un certo senso lo accompagna, dal momento che ogni ricordo non è che una scelta in un mare infinito di possibilità di memoria. Non si può ricordare senza dimenticare, come non si può dimenticare (e al tempo stesso andare oltre, riconciliarsi) senza ricordare. Inoltre, la memoria è indissolubilmente legata ad una trasmissione: si elabora memoria per trasmettere a qualcun altro quello che non vogliamo vada perduto, per fermare un processo di perdita. Una funzione didattica, quindi, ma non solo.
La memoria infatti costruisce l’identità del singolo e del gruppo, e rappresenta lo scheletro su cui poggiano le idee, le ideologie, le fedi, le politiche. Ne deriva che la memoria ha un suo uso, altro tema su cui molto si discute in questi anni: un uso politico, nazionale, ideologico. E ne deriva anche il fatto che la memoria può essere deformata, e che il compito di chi crea ed alimenta la memoria è anche quello di sorvegliarne l’uso, limitando gli abusi, le falsità, le imposizioni totalitarie, gli appiattimenti conformistici. Consapevoli tuttavia che l’uso della memoria non si può eliminare, che fa parte della memoria stessa, del suo farsi.
Impariamo così che la memoria non è mai un processo naturale, ma una costruzione dell’uomo, una costruzione individuale o collettiva. E che ogni epoca, ogni generazione, costruisce la sua memoria, in un processo di elaborazione sociale e culturale che obbedisce a domande diverse nel tempo. La nostra memoria non è quella dei nostri padri, anche se condividiamo lo stesso oggetto, se ricordiamo gli stessi eventi. Ma tutto questo, come ben sanno gli storici che hanno appassionatamente sviscerato anche questo problema, non impedisce che esistano eventi da ricordare. Gli eventi sono reali, si sono verificati. Distinguere il vero dal falso è un’operazione in un certo senso preliminare alla memoria, che richiede il confronto delle prove e onestà intellettuale. Su questa base di realtà, e solo su questa, si costruisce la memoria, il modo di ricordare.
Sono considerazioni ovvie, rese urgenti da un problema specifico della memoria della nostra società: la memoria, e la trasmissione della memoria, di eventi limite, genocidi, traumi al di là della capacità di accettazione. In particolare, quindi, la memoria di quella che è diventato l’evento limite del nostro secolo: la Shoah. Come storica, come storica degli ebrei, ma anche come ebrea, questo tema mi tocca e mi concerne. E sovente sono richiesta, come molti altri nella mia stessa posizione, di dare il mio contributo al grande rito collettivo della giornata della memoria, il giorno della liberazione di Auschwitz, il 27 gennaio, che in Italia è divenuto da tre anni, con un’apposita legge, giornata della memoria della Shoah. Vorrei qui porre alcuni problemi, esprimere alcuni dubbi e riflessioni che mi vengono dall’aver partecipato direttamente a questa operazione di “trasmissione della memoria”. Questi dubbi non vogliono dire che io pensi che non bisogna ricordare. Credo che ricordare sia indispensabile. Mi domando tuttavia quanto siamo capaci di ricordare, cioè di elaborare una memoria in grado di evitare gli scogli dell’ufficialità e della banalizzazione e di dare un contributo alla costruzione del futuro.

Serve processare i negazionisti?
Facciamo brevemente la storia di come si è costruita la memoria della Shoah, quella che noi oggi possediamo e condividiamo. Non è stato un processo semplice, naturale. Esso è passato attraverso fasi diverse, sia per gli individui che per le collettività. A fasi di rimozione, oblio, si sono alternate fasi in cui il ricordo si è levato alto, gridato. Non tutti quelli che sono tornati hanno reagito nello stesso modo, e le reazioni di ogni individuo sono mutate nel tempo e nelle circostanze.
Molti sopravvissuti hanno taciuto a lungo, alcuni hanno taciuto per sempre. Altri hanno parlato e raccolto il compito di testimoniare. Ecco cosa muove questo dolente insegnamento degli scampati, lo sappiamo, e Primo Levi ce lo ha descritto in maniera insuperabile: l’offesa di fronte alla derisione degli aguzzini, che profetizzavano che nessuno avrebbe creduto ai racconti di chi fosse riuscito a sopravvivere ad Auschwitz, la riparazione verso la memoria dei morti, il bisogno di far sì che nulla di tutto questo possa più succedere, a nessuno. Di qui, le prime testimonianze scritte, dei campi, i primi esili librini della fine degli anni ’40. Se questo è un uomo, rifiutato dalla casa editrice Einaudi, esce nel1947 per i tipi di una piccola casa editrice, la De Silva. Questa è storia nota. 
Quello che è invece meno noto, forse, è che i primi quindici anni dopo la fine della guerra sono stati anni di totale rimozione, di voluto oblio, da parte della società nel suo insieme. E non solo in Italia, ma in tutta Europa e perfino in Israele, dove si raccolgono gli scampati, che vi troveranno in un primo momento l’occasione per ricominciare, ma non quella di elaborare il loro lutto, un processo, questo, che lo storico israeliano Tom Segev descrive con grande efficacia nel suo libro Il settimo milione. Non bisogna affrettarsi però a condannare tale rimozione, a vedervi dietro l’ombra del disinteresse per la tragedia del popolo ebraico: tutti, ebrei e non ebrei, sono infatti impegnati, in un modo o nell’altro, nel creare un mondo diverso, e il passato si perde, si annacqua dietro le spalle di tutti.
Niente testimoni, in quegli anni, e scarsa trasmissione della memoria. Ma alla fine degli anni ’50, il quadro cambia e la costruzione della memoria ha inizio. Alcuni eventi fondamentali segnano la svolta: il grande successo del Diario di Anna Frank, alla cui versione teatrale vengono per la prima volta accompagnate, in Europa e in Italia, intere scolaresche. E poi, il processo Eichmann, in cui i sopravvissuti si succedono alla sbarra, a raccontare lo sterminio nazista. Da allora il ruolo del testimone diventerà fondamentale.
È un fenomeno nuovo, che non si era mai verificato prima d’ora nella storia: che gli scampati ad una tragedia facessero della loro vita di sopravvissuti una missione del ricordo, che si trasformassero in testimoni di professione, che parlano, spiegano, vanno nelle scuole a raccontare, mettendo a nudo la loro sofferenza per trasmettere con più forza la sensazione di quanto è successo. E nata l’era del testimone, per usare l’espressione di un’attenta studiosa francese di queste tematiche, Annette Wieviorka. Negli anni ’70 e ’80, il fenomeno si espande sempre più. Il serial televisivo Olocausto, pur tra le discussioni provocate dalla sua banalità, agisce come catalizzatore. Si cominciano a raccogliere sistematicamente negli archivi audiovisivi le testimonianze. Comincia la Fondazione Fortunoff, a Yale, e, dopo il grande successo del suo film Schindler’s List, continua Steven Spielberg con la sua Shoah Foundation. I sopravvissuti raccontano, le videocassette si accumulano, la memoria finisce negli archivi.
Alla sollecitazione crescente e sempre più affannosa della memoria (ché i sopravvissuti invecchiano e scompaiono), si è naturalmente accompagnata la ricerca storica, la crescita della storiografia. Si sono studiati, si continuano a studiare i meccanismi della morte, si interpreta il processo dello sterminio, se intenzionale o funzionale agli eventi, si portano alla luce documenti, immagini, fotografie, scritti di ogni tipo. Nel frattempo, contemporaneamente alla crescita della memoria, nasce un oscuro fenomeno: il negazionismo. Alcuni studiosi, mossi da nostalgie naziste ma anche di altra matrice (in Francia, ad esempio, quella di una certa ultrasinistra), negano la realtà della Shoah, trasformando in eventi immaginari tutti quelli che i nazisti avevano occultato, di cui avevano accuratamente distrutto le tracce. Per loro, le camere a gas non esistono, i morti nei campi di sterminio sono dovuti alle epidemie di tifo, e il fatto che nessun documento parlasse formalmente di “sterminio” significa che questo non c’è stato.
Questa negazione ci ha preoccupato, ci è sembrata pericolosa, e ci ha spinto a chiedere la protezione del diritto, a tutelare con la legge la memoria. Si è proibito per legge la negazione dell’Olocausto, si sono processati i negazionisti. Chissà, forse, sarebbe stato meglio non occuparcene troppo, lasciarli nel loro discredito.
Il processo di costruzione della memoria non dipendeva però che in minima parte dalla necessità di confutare le menzogne dei negazionisti. Era qualcosa di molto più profondo, un processo fondante dell’identità europea del XX secolo, che riconosceva al suo centro il delitto dello sterminio e la necessità della riparazione. L’evento limi- te del secolo dei totalitarismi diventava il fondamento di un mondo diverso.
L’apertura dei cancelli di Auschwitz ben poteva simboleggiare l’inizio di una nuova era. Fondando sulla memoria della Shoah tanta parte della sua identità, la società dichiarava di essere dalla parte delle vittime. In qualche modo, si impegnava a non permettere che una cosa simile potesse mai più succedere: non solo agli ebrei, ma a chiunque altro, qualunque altro perseguitato della storia. Auschwitz era ormai divenuto il simbolo del male assoluto.
Per quanto importante e positiva, l’operazione era gravida di rischi, soprattutto per gli ebrei, è che dopo essere stati per secoli il simbolo stesso dell’alterità venivano ora riproposti – consenzienti – in un ruolo altrettanto simbolico di vittime. Se mai non fossero stati all’altezza del loro ruolo, il rovesciamento sarebbe stato rapido: proprio loro, avrebbe gridato il mondo intero, come è successo con l’odioso paradigma della vittima trasformata in carnefice che è stato agitato in occasione del conflitto israelo-palestinese, alimentando nel mondo ebraico l’idea, un po’ claustrofobica ma non infondata, che gli ebrei piacciano soprattutto nel ruolo di vittime. Ma i rischi concernevano l’intero processo della trasmissione della memoria. Il tempo che passava stemperava gli orrori del passato, mentre si affacciavano altri orrori non tanto diversi da quelli nazisti: la Cambogia di Pol Pot, il genocidio del Ruanda, la pulizia etnica in Bosnia. E la memoria, ancora cocente, del genocidio degli armeni. Di qui il dibattito, tuttora aperto, sull’unicità di Auschwitz. Un’unicità a cui molti continuano ad aggrapparsi come se rinunciarvi volesse dire banalizzare Auschwitz e non, come è stato sostenuto da altre parti, debanalizzare gli altri crimini proprio attraverso il prisma di Auschwitz.

No alle graduatorie degli orrori
Ma il problema tocca anche il modo di ricordare, l’organizzazione di questa trasmissione della memoria. Di come insegnare Auschwitz, un convegno torinese di alcuni anni fa si è occupato in maniera intelligente e pacata, senza peraltro che queste riflessioni filtrassero a sufficienza nei luoghi di trasmissione della memoria. Un altro problema è quello delle immagini. Le cataste di corpi accumulate non hanno bisogno di essere mostrate ripetutamente ai ragazzini delle medie, che finiscono, all’inverso, per considerare l’orrore come normalità, per assuefarsi velocemente alla morte. I filmati che ho visto e all’occasione presentato nelle scuole contenevano ripetute immagini di orrore, molte delle quali superflue. E un brivido mi corre nella schiena quando sento nelle scuole parlare di “viaggio premio ad Auschwitz”. Molte iniziative, nonostante le ottime intenzioni, rischiano di trasformarsi in boomerang. Infatti, a volte si ha la sensazione che si stia verificando un eccesso di attenzione, che porta con sé pesanti rischi di banalizzazione, se non addirittura di fastidio e di rifiuto. E mi domando se non stiamo allevando, nel migliore dei casi, una generazione indifferente a qualsiasi orrore.
La riflessione ci è imposta non soltanto da questi dubbi, ma anche dal fatto che ci troviamo di fronte ad una svolta. L’era del testimone sta per finire, per evidenti motivi generazionali. Dobbiamo ripensare tutta la nostra strategia della memoria, se vogliamo evitare che dall’eccesso di attenzione si passi semplicemente all’indifferenza, all’oblio. Dobbiamo ricostruire una visione più da lontano, saldando la frattura fra storia e memoria. Lasciare spazio agli altri orrori, ai genocidi di oggi, di ieri. Essere consapevoli del rischio che si corre tra- sformando gli ebrei in simboli, in icone.
Evento limite per eccellenza, la Shoah è così irta di pericoli anche nella sua trasmissione. Essa infatti porta alle estreme conseguenze la discrepanza tra esigenza conoscitiva- conoscere quello che è stato, ricostruirlo, fissarlo – ed esigenza etica – evitare che si ripeta sotto qualsiasi forma. Dal punto di vista conoscitivo, ciò che risalta è l’ineluttabilità della distruzione, la casualità della sopravvivenza. Ma dal punto di vista dell’insegnamento etico dobbiamo insegnare soprattutto la responsabilità, la libertà della scelte: spiegare ogni gesto, sia pur piccolo, è importante, serve, deve essere fatto. E ancora un altro problema che questa memoria ci pone: come guidare i giovani sulla via di una conoscenza profonda, interiore, che consenta anche la catarsi, il superamento dell’orrore fine a se stesso? E come farlo, senza trasformare il nostro insegnamento in un film a lieto fine, che addormenti le coscienze invece di risvegliarle?

Articolo scritto da Anna Foa in Vita e Pensiero
Anna Foa, docente di Storia moderna all’Università “La Sapienza” di Roma, è autrice di numerosi saggi dedicati alla presenza del popolo ebraico nel vecchio continente. Il suo libro più noto è “Ebrei in Europa dalla peste nera all’Emancipazione”.

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