L’insegnamento di Gesù: chi vuol essere primo sia servo di tutti

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!» (…)

Un tale corre incontro al Signore. Corre, con un gesto bello, pieno di slancio e desiderio. Ha grandi domande e grandi attese. Vuole sapere se è vita o no la sua. E alla fine se ne andrà spento e deluso. Triste, perché ha un sogno ma non il coraggio di trasformarlo in realtà. Che cosa ha cambiato tutto? Le parole di Gesù: Vendi quello che hai, dallo ai poveri, e poi vieni. I veri beni, il vero tesoro non sono le cose ma le persone.
Per arrivarci, il percorso passa per i comandamenti, che sono i guardiani, gli angeli custodi della vita: non uccidere, non tradire, non rubare. Ma tutto questo l’ho sempre fatto. Eppure non mi basta. Che cosa mi manca ancora? Il ricco vive la beatitudine degli insoddisfatti, cui manca sempre qualcosa, e per questo possono diventare cercatori di tesori. Allora Gesù guardandolo, lo amò. Lo ama per quell’eppure, per quella inquietudine che apre futuro e che ci fa creature di domanda e di ricerca.
Una cosa ti manca, va’, vendi, dona…. Quell’uomo non ha un nome, è un tale, di cui sappiamo solo che è molto ricco. Il denaro si è mangiato il suo nome, per tutti è semplicemente il giovane ricco. Nel Vangelo altri ricchi hanno incontrato Gesù: Zaccheo, Levi, Lazzaro, Susanna, Giovanna. E hanno un nome perché il denaro non era la loro identità. Che cosa hanno fatto di diverso questi, che Gesù amava, cui si appoggiava con i dodici?
Hanno smesso di cercare sicurezza nel denaro e l’hanno impiegato per accrescere la vita attorno a sé. È questo che Gesù intende: tutto ciò che hai dallo ai poveri! Più ancora che la povertà, la condivisione. Più della sobrietà, la solidarietà. Il problema è che Dio ci ha dato le cose per servircene e gli uomini per amarli. E noi abbiamo amato le cose e ci sia-mo serviti degli uomini…
Quello che Gesù propone non è tanto un uomo spoglio di tutto, quanto un uomo libero e pieno di relazioni. Libero, e con cento legami. Come nella risposta a Pietro: Signore, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, cosa avremo in cambio? Avrai in cambio una vita moltiplicata. Che si riempie di volti: avrai cento fratelli e sorelle e madri e figli…
Seguire Cristo non è un discorso di sacrifici, ma di moltiplicazione: lasciare tutto ma per avere tutto. Il Vangelo chiede la rinuncia, ma solo di ciò che è zavorra che impedisce il volo. Messaggio attualissimo: la scoperta che il vivere semplice e sobrio spalanca possibilità inimmaginabili. Allora capiamo che Dio è gioia, libertà e pienezza, che «il Regno verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme» (Vannucci). Che ogni discepolo può dire:
con gli occhi nel sole
a ogni alba io so
che rinunciare per te
è uguale a fiorire
.

(Ermes Ronchi)

Conducimi

Signore, fa di me ciò che vuoi!
Non cerco di sapere in anticipo i tuoi disegni su di me,
voglio ciò che Tu vuoi per me.
Non dico: “Dovunque andrai, io ti seguirò!”,
perché sono debole, ma mi dono a Te perché sia Tu a condurmi.
Voglio seguirTi nell’oscurità,
non Ti chiedo che la forza necessaria.
O Signore,
fa’ ch’io porti ogni cosa davanti a Te,
e cerchi ciò che a Te piace in ogni mia decisione
e la benedizione su tutte le mie azioni.
Come una meridiana non indica l’ora se non con il sole,
così io voglio essere orientato da Te,
Tu vuoi guidarmi e servirTi di me.
Così sia, Signore Gesù!
(John Henry Newman).

La chiamata alla santità

Un asso in chimica e in matematica. Voce da popstar e leader di un gruppo musicale. Versatile negli sport e abile nel suonare la chitarra tanto quanto il basso. Ma soprattutto quotidianamente devoto a quella che chiamava la sua “missione di infiltrato tra i giovani”, chiamato a “parlare loro di Dio”. Si terrà il 24 aprile 2017 la sessione conclusiva della fase diocesana del processo di beatificazione di Matteo Farina, nato ad Avellino e cresciuto a Brindisi.
I sostenitori del ragazzo morto a 19 anni dopo avere subito tre interventi per rimuovere un tumore cerebrale hanno fondato un’associazione e animano le pagine social in suo nome. Un quasi santo 2.0 che può contare su un profilo Instagram (matteofarina19), una pagina Facebook e un hashtag ufficiale #matteodonodidio. Chi lo ha conosciuto parla di un ragazzo fuori dal comune non soltanto per la pagella da dieci e lode in tutte le materie, nessuna esclusa. Ma per una intima serenità nell’affrontare la malattia sostenuta da una fede altrettanto profonda di cui ha lasciato prova scritta nei suoi diari.
Quelle pagine sono fra i documenti alla base della documentazione al vaglio del tribunale ecclesiastico, al pari delle testimonianze di chi ha conosciuto Matteo. Fra questi il dirigente scolastico dell’Itis Majorana, Salvatore Giuliano, la scuola diventata famosa per il ‘Book in progress’ e un processo di digitalizzazione all’avanguardia su scala nazionale. Se il processo di canonizzazione si concluderà positivamente, Matteo sarà il primo beato del Salento.

Preside, quando ha conosciuto Matteo Farina?

“L’ho incontrato per la prima volta a ottobre, anno scolastico 2008-2009. Io ero arrivato a scuola a settembre, lui era già ammalato gravemente e mancò da scuola a lungo. Quando finalmente poté ritornare a lezione venne a trovarmi con la mamma. I professori mi avevano preparato parlandomi a lungo di lui. Non solo e non tanto perché aveva una pagella con il massimo dei voti in tutte le discipline. E nemmeno perché fin da ragazzino era costretto a convivere con interventi al cervello, radioterapia e affini. Quella mattina mi raccontò la sua storia, quello che stava attraversando. Nella sua voce non vibrava ombra di rammarico, rabbia, dolore. Parlava con una serenità che mi colpì e mi atterrì insieme e capii quello che i professori volevano dirmi. Io, adulto, non riuscivo a capire da dove venisse la forza di quel ragazzino che avevo di fronte: di certo mi stava dando una delle lezioni più grandi che ho mai ricevuto nella mia vita”.

Materie preferite?

“Amava la chimica oltre ogni misura. Dopo avere frequentato il biennio al Giorgi si iscrisse al nostro istituto proprio per potere approfondire la chimica. Voleva ‘studiare la perfezione dell’atomo, in cui percepiva la grandezza di Dio’, come ha scritto la postulatrice Francesca Consolini nella biografia ufficiale di Matteo. Ma era un asso anche in matematica. Aiutava tutti gli altri compagni. Non li faceva copiare, ma metteva a disposizione i suoi pomeriggi per dare loro lezioni private. Ecco, non so come dire: la malattia per lui era un ingombro, un fastidio nella misura in cui non gli consentiva di venire a scuola. Ricordo una delle volte in cui era andato ad Hannover per sottoporsi all’ennesimo intervento. Appena si svegliò disse che doveva riprendersi in fretta perché doveva studiare matematica”.

I coetanei lo chiamavano ‘il moralizzatore’. Ha mai colto un accento di scherno da parte dei compagni nei confronti di questo adolescente che si definiva ‘servo di Dio’?

“Era molto severo, con sé stesso e con gli altri. Ma nessuno lo ha mai preso in giro. Era un leader, gli altri ragazzi lo percepivano come la guida della classe, della scuola”.

Ed era anche il leader di un gruppo musicale, i No name.

“Sì, faceva anche quello. Ma la band in cui lui era la voce nacque perché voleva stare vicino ad alcuni amici. Pare che qualcuno avesse preso o stesse per prendere una cattiva strada: per distoglierlo da cattive frequentazioni si inventò questa cosa del gruppo. Prendeva molto sul serio il suo ruolo di infiltrato, chiamato a ‘entrare tra loro silenzioso come un virus e contagiarli di una malattia senza cura, l’Amore’. È una delle cose straordinarie che ha scritto nel suo diario”.

Lei ha mai provato imbarazzo di fronte a Matteo?  

“Era la sua serenità di fronte alla malattia che mi imbarazzava. Per il resto si portava appresso il suo grande carisma con una semplicità tale da abbattere ogni barriera, cancellare ogni sensazione di inadeguatezza che anche gli adulti avrebbero potuto ragionevolmente provare di fronte a lui”.

Uno studente modello, di sicuro. Ma avete mai avuto la sensazione di avere avuto una persona in odore di santità fra di voi?

“Le racconto un aneddoto. Negli ultimi mesi di vita la scuola organizzò una festa in occasione del suo ritorno da Hannover: fu l’ultimo intervento e lui era già sulla sedia a rotelle. Festeggiammo tutti insieme. Alla fine della festa lo accompagnai fuori, rimanemmo da soli.  Sapevo che non l’avrei rivisto, lo sentivo. Mi disse: ‘Preside, farai grandi cose. Vai avanti e non avere mai paura”. Fu profetico. La digitalizzazione della scuola all’epoca non era ancora partita. Mi ricordo quella scena come fosse ieri. Fu profetico”.

 

Introducimi nel mistero

Con i tuoi segni, Gesù, vuoi farmi conoscere la tua identità di Figlio di Dio e introdurmi nel mistero della tua persona e della tua missione.
Perdona il mio pragmatismo che si ferma all’interesse immediato, alla superficie della realtà. Non so darti il poco che possiedo; ma poi, quando con quel poco tu operi grandi cose, vi resto abbarbicato e non vado più in profondità, dove tu mi vuoi condurre. Un Dio che risolve i problemi contingenti della vita mi va bene, ma un Dio che mi propone di es-sere sempre dono totale e gratuito per gli altri mi scandalizza. Tu mi ripeti, Gesù, che proprio questa, invece, è la mia vocazione di figlio del Padre.
Ancora una volta, alla tua scuola, che io impari ad amare.