Il prete secondo papa Francesco

Prendo questo lungo ma interessante articolo da Settimana News. E’ una riflessione di Andrea Lebra su come papa Francesco vede la figura del presbitero.

 

Attingendo al ricco magistero di papa Francesco, è possibile delineare il ritratto del prete ideale che anche noi, christifideles laici, ameremmo vedere nelle nostre comunità? Parrebbe proprio di sì.
Dai discorsi, dalle omelie, dalle lettere e dai messaggi di Francesco, che hanno ad oggetto in modo diretto o indiretto la missione del prete, emerge, tassello dopo tassello, un mosaico decisamente ricco che, più che soffermarsi su semplici e aride definizioni di tipo dottrinale e sistematico, denota l’intento di offrire l’identikit del prete ideale della Chiesa di oggi, tenendo in stretta correlazione la sostanza e la forma, il contenuto e il vissuto.

Di questo mosaico si possono mettere in risalto almeno sette tessere.

Uomo della misericordia e della compassione

In quanto «uomo di misericordia e di compassione», il prete «cammina con il cuore e il passo dei poveri…, è reso ricco dalla loro frequentazione» e si lascia «segnare dal grido di chi soffre». Egli muove dal riconoscimento che emarginati, poveri e senza speranza «sono stati eletti a sacramento di Cristo» e «sono la carne di Cristo». Ogni cristiano – quindi, «anche i pastori» – e ogni comunità sono chiamati ad essere «strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società», facendo loro spazio nella Chiesa anche quando la riempiono di insulti. «Il volto più bello di un Paese e di una città è quello dei discepoli del Signore – vescovi, sacerdoti, religiosi, fedeli laici – che vivono con semplicità, nel quotidiano, lo stile del Buon Samaritano e si fanno prossimi alla carne e alle piaghe dei fratelli, in cui riconoscono la carne e le piaghe di Gesù». La Chiesa ha bisogno di pastori (vescovi, ma anche preti: ndr) che, mettendo da parte «ogni forma di supponenza», si inginocchiano «davanti agli altri per lavare loro i piedi».

Uomo del dono e del perdono

In quanto «uomo del dono e del perdono», il prete sa mantenersi «distante dalla freddezza del rigorista, come pure dalla superficialità di chi vuole mostrarsi accondiscendente a buon mercato». «La durezza gli è estranea», perché non è «un ispettore del gregge» o «un ragioniere dello spirito», ma un «pastore secondo il cuore mite di Dio». Anche nei momenti faticosi diffonde serenità intorno a sé, «trasmettendo la bellezza del rapporto con il Signore». Della grazia non è controllore, ma facilitatore; per lui la Chiesa non è una dogana «colpevolizzante», ma «la casa paterna dove c’è posto per tutti con la loro vita faticosa». Egli si sente chiamato dal Signore «a un’opera splendida, a lavorare perché la sua casa sia sempre più accogliente, perché ognuno possa entrarvi e abitarvi, perché la Chiesa abbia le porte aperte a tutti e nessuno abbia la tentazione di concentrarsi solo a guardare e cambiare le serrature». «Esperto in umanità», il prete «porta concordia dove c’è divisione, armonia dove c’è litigiosità, serenità dove c’è animosità».

Apostolo della gioia

In quanto «apostolo della gioia», il prete dimostra fedeltà alla sua vocazione trasmettendo al Popolo di Dio, con il suo modo di vivere, la gioia che sente dentro di sé e che deriva dal suo rimanere radicato in Cristo. La gioia del prete «è un bene prezioso non solo per lui ma anche per tutto il Popolo fedele di Dio». La gioia, peraltro, «è il segno del cristiano: un cristiano senza gioia o non è cristiano o è ammalato». E «la gioia del cristiano non è l’emozione di un istante o un semplice ottimismo umano, ma la certezza di poter affrontare ogni situazione sotto lo sguardo amoroso di Dio, con il coraggio e la forza che provengono da Lui… Senza gioia, la fede diventa un esercizio rigoroso e opprimente, e rischia di ammalarsi di tristezza… Non c’è santità senza gioia». Anche in mezzo alle difficoltà, il prete conserva il senso dell’umorismo, una delle caratteristiche della santità. Grazie ad esso, può ridere degli altri, di se stesso e anche della propria ombra.

Uomo della Pasqua e dallo sguardo rivolto al Regno di Dio

In quanto «uomo della Pasqua e dallo sguardo rivolto al Regno di Dio», verso cui sente che la storia umana cammina, nonostante i ritardi, le oscurità e le contraddizioni, il prete «ama la terra che riconosce visitata ogni mattina dalla presenza di Dio». Egli «non è mai arrivato», ma è sempre un «pellegrino sulle strade del Vangelo e della vita, affacciato sulla soglia del mistero di Dio e sulla terra sacra delle persone a lui affidate». Lasciandosi ogni giorno formare dal Signore, evita di diventare un «prete spento» e di trascinarsi nel ministero «per inerzia», «senza entusiasmo per il Vangelo e senza passione per il Popolo di Dio». Affidandosi giorno per giorno «alle mani sapienti del Vasaio (con la «V» maiuscola), conserva nel tempo l’entusiasmo del cuore, accoglie con gioia la freschezza del Vangelo, parla con parole capaci di toccare la vita della gente. E le sue mani, unte dal vescovo nel giorno dell’ordinazione, sono capaci di ungere a loro volta le ferite, le attese e le speranze del Popolo di Dio». Il suo non è «un cuore ballerino che si lascia attrarre dalle suggestioni del momento», ma un cuore saldo nel Signore, aperto e disponibile ai fratelli e alle sorelle.

Costituito in favore della gente nelle cose che si riferiscono a Dio

In quanto costituito in favore della gente nelle cose che si riferiscono a Dio, il prete è autorevole ma non autoritario, fermo ma non duro, gioioso ma non superficiale, pastore ma non funzionario: sa stare in mezzo alla gente come padre e fratello, condividendone gioie e sofferenze. «Non si ferma dopo le delusioni e nelle fatiche non si arrende; è, infatti, ostinato nel bene… Nessuno è escluso dal suo cuore, dalla sua preghiera e dal suo sorriso». A volte si pone davanti al Popolo di Dio per indicare la strada e sostenerne speranze e aspirazioni, altre volte sta in mezzo a tutti con la sua vicinanza semplice e misericordiosa, e in alcune circostanze cammina dietro al Popolo di Dio per aiutare e infondere coraggio a coloro che faticano a stare al passo. Nei confronti dei battezzati laici il prete non si comporta come il padrone della baracca, ma mette concretamente al bando non solo ogni visione verticista e distorta del suo ministero, ma anche ogni forma di clericalismo sia attivo (la tentazione, da parte del clero, di clericalizzare i laici) che passivo (il desiderio dei laici di essere clericalizzati). Il clericalismo, infatti, è una perversione che mantiene i fedeli laici al margine delle decisioni, in quanto tende a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale posta dallo Spirito Santo nel loro cuore. «Esso nasce da una visione elitaria ed escludente della vocazione, che interpreta il ministero ricevuto come un potere da esercitare piuttosto che come un servizio gratuito e generoso da offrire; e ciò conduce a ritenere di appartenere a un gruppo che possiede tutte le risposte e non ha più bisogno di ascoltare e di imparare nulla, o fa finta di ascoltare». Il prete promuove e valorizza la partecipazione alla vita della Chiesa di ogni persona battezzata dotata del sensus fidei che l’aiuta a «discernere ciò che viene realmente da Dio». Nella sua comunità «tutti sono protagonisti e nessuno può essere considerato semplice comparsa».

Contemplativo della Parola e contemplativo del Popolo di Dio

In quanto contemplativo della Parola e contemplativo del Popolo di Dio, il prete mette Dio e le persone al centro delle sue preoccupazioni quotidiane, «diffonde alla luce del Vangelo il gusto di Dio intorno a sé, trasmette speranze ai cuori inquieti». Si nutre della Parola che predica, facendola risuonare in tutto il suo splendore nel cuore del Popolo avendo essa risuonato dapprima nel suo cuore di pastore. «La sua parola, predicata o scritta, attinge chiarezza di pensiero e forza persuasiva alla fonte della Parola del Dio vivo, nel Vangelo meditato e pregato, ritrovato nel Crocifisso e negli esseri umani, celebrato in gesti sacramentali mai ridotti a puro rito»: «non è uno che esige la perfezione, ma uno che invita ciascuno a dare il meglio». Poiché l’ignoranza delle Scritture sacre è ignoranza di Cristo, il prete sente forte l’esigenza di renderle accessibili e familiari alla propria comunità, realizzando tutto ciò che serve perché i fedeli possano frequentarle con assiduità. Consapevole, inoltre, che la religione non può limitarsi all’ambito privato e che non esiste solo per preparare le anime per il cielo, egli «diffida delle esperienze che portano a sterili intimismi e delle spiritualità appaganti che sembrano dare consolazione e invece portano a chiusure e rigidità». Rifiuta ogni spiritualità disincarnata ed è disponibile a sporcarsi le mani con i problemi della gente, senza usare i guanti. Si impegna «a risvegliare nelle persone l’umano per aprirle al divino» e «a ridare ai poveri la parola, poiché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia». Ed è la parola che potrà «aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole». In altri termini, il prete nutre la speranza e coltiva il sogno di cambiare il mondo con il Vangelo.

Costruttore di sinodalità

In quanto profondamente consapevole che «il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio è quello della sinodalità» che, lungi dall’essere una moda o uno slogan, esprime la natura, la forma, lo stile e la missione della Chiesa, come prete avverte l’urgenza di contribuire a costruirla, non occasionalmente ma strutturalmente. A partire dalla valorizzazione degli organismi di partecipazione e corresponsabilità che, a livello parrocchiale, dovrebbero favorire «il dialogo e l’interazione nel Popolo di Dio, soprattutto fra sacerdoti e laici». Tutti hanno qualcosa da imparare dagli altri, a condizione che ci si incontri senza formalismi e senza infingimenti e ci si metta in ascolto delle domande, degli affanni e delle speranze del Popolo di Dio per essere in grado di discernere ciò che lo Spirito ci suggerisce per evitare di diventare una Chiesa da museo, bella ma muta, con tanto passato e poco avvenire. L’autentico obiettivo della sinodalizzazione della Chiesa, infatti, «è far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani».

 

Preghiera della seconda domenica di avvento

Ci riunisci con la tua Parola,
Signore dei secoli,
Dio eterno.
Rivolgi verso di te i nostri occhi distratti,
affinché al termine del cammino
possiamo vedere levarsi la luce
del tuo Figlio Gesù Cristo.

Riempici, o Signore, della forza del tuo Spirito
affinché possiamo rispondere
alla voce che grida nel deserto
e preparare il cammino
di colui che sta, sconosciuto, in mezzo a noi,
di colui che viene,
Gesù, tuo Figlio e nostro fratello.

Le parole dell’Avvento

A) Deserto e fiume
Se il deserto è il luogo dell’intimità con Dio, della prova, della purificazione, dell’ab-battimento degli idoli, viverne la spiritualità, oggi, deve comportare tante conseguenze: non lasciarci prendere dall’affanno delle cose; non sprofondare nello scoraggiamento quando si sperimenta l’aridità e la fatica nel quotidiano, con tutte le sue tentazioni; abbat-tere i piccoli idoli che abbiamo eretto, forse anche accanto alla croce, nel santuario della nostra coscienza.
E se il fiume, nella simbologia biblica, indica la salvezza che straripa provocando novi-tà di vita, sarebbe opportuno chiederci se noi da queste acque ci lasciamo appena lambi-re, rimanendo a mezza costa o sul greto, sedotti magari solo dalla curiosità, oppure ci siamo decisi cordialmente a «entrare nel fiume».

B) Parola e voce

II Battista, definito semplice voce di colui che verrà dopo e che sarà la Parola, deve provocare, in noi, una conversione all’umiltà, alla coscienza del limite, al rifiuto di ogni arrogante prevaricazione. Noi siamo i servi della Parola. Le prestiamo vibrazioni e riso-nanze. La portiamo lontano e le diamo cadenze di attualità. Ma la Parola è Cristo. È lui che giudica e che salva.
Forse la considerazione della nostra semplice strumentalità, oltre che spingerci all’ap-profondimento della Parola che poi, come credenti in Gesù, dobbiamo rivestire di voce, potrebbe riscattarci anche da non pochi abusi di potere.

C) Denuncia e proposta
Lo stile di Giovanni che rimprovera gli ebrei e, ricorrendo al vocabolario più duro, ne sferza la cattiva condotta di vita, potrebbe fuorviarci, se non tenessimo presente che, nel suo messaggio, accanto alla denuncia si colloca l’annuncio, con una incredibile forza pro-positiva. «Razza di vipere», sì. Ma anche: «Convertitevi», «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri: il regno dei cieli è vicino» (Mt3, 3).
Ci sarebbe da chiedersi se anche nelle nostre comunità cristiane lo sbilanciamento sui versanti della denuncia, che per altro non ha molto bisogno di inventiva, non debba esse-re ricondotto a più maturo equilibrio mediante proposte positive, incoraggianti, che fac-ciano appello alle risorse della speranza. Sarebbe ben triste che scambiassimo la profezia con l’esercizio del brontolare cronico, dimenticando che essa è danza più che lamento.

D) Acqua e fuoco
«Io vi battezzo con acqua… egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3, 11). È mol-to significativo che già lo Spirito Santo venga insediato al centro dell’economia di salvez-za. Non è raro, infatti, che il Natale venga percepito come espressione del protagonismo solo del Padre e del Figlio, rimandando quasi una più seria presa in considerazione dello Spirito Santo al periodo di Pentecoste. Non c’è nulla di più deleterio di questa visione.
Non sarebbe fuori posto oggi buttare lì, come una pietra nello stagno, una domanda a bruciapelo: che cosa significa per noi credenti fermarsi all’acqua di Giovanni?

E) Grano e pula
Non è esercitare forme di ricatto o di terrorismo spirituale, su di sé o sugli altri, se og-gi ci chiediamo qual è la percentuale della crusca nel frumento della nostra esistenza. E non è neppure dare sfogo all’ingenuità se ci si esercita in una specie di bilancio di previ-sione, pensando a quale sarà la crusca della nostra vita che il Signore un giorno brucerà e a quali saranno i chicchi di grano lucente che egli riporrà nei suoi granai. È solo il tentati-vo di chi vuol tradurre in spessore di concretezza l’invito alla conversione.
(Don Tonino Bello, Avvento. Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 61-66).
Il cristiano è un prigioniero
Il cristiano è un prigioniero.
Prigioniero di una vita: la vita di Cristo. Non è il propagandista di un’idea, ma il mem-bro di un corpo che vive e che vuole crescere.
Prigioniero di un pensiero: non è un libero pensatore, né il propagandista di un’idea, ma la voce di un altro: “la voce del Padrone”.
Prigioniero di uno slancio: di un desiderio a misura di Dio, che vuole salvare ciò che è perduto, guarire ciò che è malato, unire ciò che è separato, perpetuamente ed universal-mente.
Essere cristiano è essere prigioniero di uno stato di fatto, prigioniero di dimensioni che da ogni lato non sono più le nostre, prigioniero, se posso dire, di una libertà che ha scelto in anticipo per noi.
È in questa cattività che il missionario deve annunciare il Cristo che egli vive, annun-ciare un messaggio che ha ricevuto e che non deve modificare; trasmettere una salvezza che non viene da lui e che ha la misura del mondo intero. Quel Cristo che egli vive, non può modificarlo. Ne è prigioniero. Quel messaggio, non può modificarlo. Ne è prigionie-ro. Quella salvezza non può restringerla. Ne è prigioniero.

(Madeleine DELBRỆL, Noi delle strade, Milano, Gribaudi, 2008, 19-20).