I martiri di El Salvador avranno giustizia?

Sotto processo a Madrid l’ex colonnello ed ex ministro della Difesa di El Salvador Inocente Montano per la strage del novembre 1989 all’UCA.
Montano ha più di 70 anni ed è in prigione dal 2017. Le udienze si terranno fino al 16 luglio. Dovrà rispondere alla giustizia spagnola dell’assassinio di sei gesuiti, tra i quali Ignacio Ellacuria.
Accanto a Montano, siederà anche René Yusshy Mendoza, già tenente colonnello della repubblica salvadoregna, membro del battaglione Atlacati, esecutore degli assassini. Gli fu data la pena di un anno per ogni assassinato perché confessò e si offrì a riparare il danno.
L’accusa è precisa: «Entrambi parteciparono alla decisione, al disegno o all’esecuzione» dell’assassinio, il 16 novembre 1989. All’interno dello stato di El Salvador facevano parte di una struttura parallela al di fuori della legalità, che alterò gravemente la pace pubblica, mettendo in atto uno stato di terrore nella popolazione con esecuzione di civili e con “sparizioni forzate”.
Montano fu detenuto per due anni negli Stati Uniti fino alla consegna alla giustizia spagnola il 29 novembre 2017. Il tribunale spagnolo processò una ventina di ex militari salvadoregni, che parteciparono all’assassinio, ma le autorità del paese non concessero l’estradizione, per cui solo Montano, detenuto negli USA, poté mettersi a disposizione della giustizia spagnola.

Il massacro
I martiri di quel 16 novembre 1989 riposano nella cappella di mons. Romero nel recinto dell’Università del Centroamerica (UCA). Alla memoria: Celina ed Elba Ramos, Ignacio Martin-Barò, Armando Lopez, Juan Ramon Moreno, Segundo Montes, Ignacio Ellacuria, Joaquin Lopez y Lopez. Sei gesuiti, la cuoca e la figlia di 16 anni. Il teologo Sobrino scampò al massacro perché si trovava in Thailandia. Un altro gesuita era andato a dormire in un’altra comunità. Di otto erano presenti sei e furono assassinati.
Vennero di notte i soldati del presidente Cristiani, forzarono la porta d’ingresso della casa, li fecero uscire nel giardinetto e spararono loro alla testa. Le cervella schizzarono al suolo. Impazziti, i soldati gettarono a terra macchine da scrivere, computer, registri, video e rubarono documenti e registri. Entrarono nella cappella di mons. Romero, presero di mira la grande foto e spararono al cuore.
I gesuiti erano persone che disturbavano. Erano chiamati comunisti e marxisti, anti-patrioti, persino atei. Si voleva ridurli al silenzio, magari allontanarli dal Paese, disperderli o ucciderli.

Era il Vangelo la loro ispirazione
Il teologo Sobrino conosceva bene i suoi colleghi e confratelli. Disse all’indomani del crudele assassinio che erano cristiani autentici e coraggiosi, convinti di seguire Gesù di Nazaret nella lotta di liberazione dall’ingiustizia e da ogni sopruso. Conoscevano certamente il marxismo per analizzare la situazione di oppressione nel terzo mondo, ma tenevano conto dei seri limiti dell’analisi marxista. Non fu mai il marxismo la loro fonte principale di ispirazione. Il rettore, Ignacio Ellacuria, era un eminente discepolo del filosofo spagnolo Xabier Zubiri.
Era il vangelo di Gesù che ispirava le loro azioni. Me lo confessò, a distanza di anni, lo stesso Jon Sobrino, con il quale ripercorsi quella tristissima notte di tenebra e morte: «Quando nella comunità parlavamo di fede, le parole erano molto parche, ma molto reali. Eravamo soliti parlare del regno di Dio e del Dio del regno della vita cristiana come sequela di Gesù, del Gesù storico, quello di Nazaret. All’Università – nell’insegnamento e negli scritti di teologia, ma anche in momenti solenni e in atti pubblici – ricordavamo sempre la nostra ispirazione cristiana come il punto centrale del nostro agire. Si parlava dell’opzione dei poveri, del peccato strutturale, della sequela di Gesù liberatore».
I gesuiti trucidati godevano dell’appoggio e dell’amicizia di alcuni vicini a mons. Romero, come mons. Rivera Damas e mons. Casaldaliga. Vescovi cattolici e di altre confessioni visitavano l’Università e non consideravano i gesuiti assassinati come membri e rappresentanti di una Chiesa pericolosa, poco obbediente al magistero di Roma. Ancora Sobrino: «Erano il volto delle maggioranze popolari, dei poveri, degli oppressi del Paese. Questa è la tragedia e per questo li uccisero».
Conservo l’emozione di quando visitai la cappella dell’Università, con la foto del vescovo martire Romero, le stanze dei gesuiti e il piccolo giardino, dove furono massacrati, la “sala dei martiri”, dove sono esposte le cose personali dei martiri.

“Obdulio cura le rose”
Il 22 marzo del 1990, alle 7 del mattino, il vescovo emerito di Sao Felix, in Brasile, Pedro Casaldaliga, si recò al “Centro pastorale mons. Romero” per visitare il luogo del massacro. S’incontrò per caso con Obdulio, marito di Elba, la cuoca, e padre di Celina, entrambe crivellate di colpi. Obdulio era intento al suo lavoro. Stava ponendo piante di rose nel luogo del martirio. I due si abbracciarono.

Il vescovo voleva donare qualcosa al marito e padre. Aveva un rosario e glielo diede. Lui se lo pose al collo. Il giorno dopo, don Pedro, poeta molto noto, scrisse questi versi dedicati ai martiri dell’UCA e al popolo ferito:

Già siete la verità in croce

e la scienza in profezia

ed è completa la compagnia

compagni di Gesù.

Il giuramento compiuto,

la UCA e il popolo ferito

dettano la stessa lezione

dalle cattedre-fosse

e Obdulio cura le rose

della nostra liberazione.

 

di: Francesco Strazzari
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